I fatti penalmente rilevanti non sono sempre un ostacolo alla concessione della cittadinanza italiana
La Sezione Terza del Consiglio di Stato, con la sentenza dell’11 luglio 2023 numero 6791, pronunciandosi sui criteri effettivi di legittimità del provvedimento di diniego avverso un’istanza di concessione della cittadinanza italiana, ha accolto l’appello di un cittadino albanese residente in Italia da venticinque anni, contro quella pronuncia del giudice di prime cure che dichiarava legittimo il decreto di rigetto adottato in materia dal Ministero dell’Interno.
Le posizioni di fatto contrapposte
L’Amministrazione competente aveva respinto l’istanza di concessione della cittadinanza italiana proposta dal ricorrente ex articolo 9 comma 1 lettera f) della legge del 5 febbraio 1992 numero 91, perché quest’ultimo, nel decennio anteriore alla data di presentazione della relativa domanda, risultava interessato da notizie di reato (in specie, per falso e ricettazione), quindi inaffidabile rispetto al requisito di necessaria integrazione nella comunità nazionale.
Il ricorrente e poi appellante, invece, rappresentando la propria compiuta integrazione nella comunità nazionale, sottolineava d’essere incensurato e privo di carichi pendenti e che quelle notizie erano mere segnalazioni di polizia prive di esito giudiziario, da lui in ogni caso apprese solo all’atto della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della relativa domanda di cittadinanza.
L’interpretazione del Collegio sui criteri di legittimità o meno del relativo diniego
Il Consiglio di Stato, con uno sforzo interpretativo di marca liberale – pur confermando l’elevata discrezionalità e l’ampia valutazione rimessa dalla legge all’Amministrazione competente nell’esercizio del connesso potere concessorio – ha correttamente statuito non solo l’ineludibile dovere del Ministero dell’Interno di effettuare un adeguato approfondimento istruttorio sul complesso di circostanze (pure se penalmente rilevanti) comprovanti l’avvenuta stabile e complessiva integrazione del richiedente nel tessuto sociale, ma anche quello di un’ampia ed adeguata motivazione nelle ipotesi ostative al rilascio della richiesta cittadinanza.
Sul punto, la Sezione decidente, ritenendo illegittimo per difetto di istruttoria e di motivazione il decreto di rigetto adottato dal Ministero, condividendo la tesi del ricorrente appellante e richiamando i propri precedenti in materia, ha statuito che “…quando il diniego sia basato esclusivamente su fatti risalenti nel tempo non seguiti da alcuno sviluppo in sede penale, occorre che l’eventuale provvedimento di diniego sia supportato da un maggiore approfondimento istruttorio e da un più ampio corredo motivazionale, non apparendo in tali casi sufficiente il mero richiamo di segnalazioni, rapporti e denunce a carico del richiedente, in specie se non recenti e risalenti nel tempo, senza un’adeguata verifica circa l’attuale stato di tali segnalazioni, denunce e rapporti…”.
A tal proposito, ha ritenuto altresì illegittimo il diniego di cittadinanza, allorquando esso “…si basi sulla constatazione che vi è stata una denuncia all’autorità giudiziaria, senza accertare quali siano stati gli ulteriori sviluppi del relativo procedimento (nello stesso senso anche, di questa Sezione, le sentenze 3 marzo 2021, n. 1826, 14 maggio 2019, n. 3121, 20 marzo 2019, n. 1837)…” e, più in genere, allorché “…le denunce non sono state fatte oggetto di un autonomo apprezzamento, non essendo in alcun modo circostanziate…”, ovvero “…il provvedimento ministeriale – per l’insufficienza dei dati istruttori su cui si fonda – non reca un approfondito apprezzamento sui fatti sottesi alle denunce e, dunque, sul reale disvalore delle condotte rispetto ai princìpi fondamentali della convivenza sociale e alla tutela anticipata della sicurezza e della incolumità pubblica…”, risolvendosi in una rilevazione acritica delle pendenze “…nella loro asettica storicità senza alcun autonomo ed effettivo vaglio critico, come dato cioè di per sé stesso idoneo ad accreditare un giudizio di disvalore ai fini qui in rilievo…”.
Le precisazioni interpretative e i relativi sviluppi
Con ciò, senza negare il potere altamente discrezionale di valutazione del Ministero, che può basarsi “…su «un complesso di circostanze atte a dimostrare l’avvenuta stabile integrazione del richiedente nel tessuto sociale sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta, tra cui particolare rilievo assume il rispetto delle regole della convivenza civile e non solo di quelle di rilevanza penale» (Cons. Stato, sez. I, pareri nn. 943 del 2022 e 1959 del 2020)…” e conservando il principio per cui “…l’Amministrazione ha il potere di valutare anche fatti oggetto di mera comunicazione di reato, di archiviazione in sede penale, di assoluzione o integranti reati poi estinti o depenalizzati, in quanto comunque «rivelatori di una non piena adesione ai valori della convivenza civile rilevanti per la sicurezza e/o l’ordinato svolgimento della vita sociale» (Cons. Stato, sez. I, parere n. 77 del 2023; pareri nn. 1219, 1756-1761 e 806 del 2022)…”.
Invero e comunque, osservando che in dette ipotesi “…è necessario un adeguato approfondimento istruttorio diretto ad accertare se e quali sviluppi vi siano stati delle denunce richiamate e poste a base della valutazione negativa, approfondimento istruttorio che deve essere poi logicamente seguito da un’attenta valutazione dei fatti così compiutamente ricostruiti, con un’ampia motivazione che dia conto delle ragioni per le quali quei fatti in astratto penalmente rilevanti, ancorché non seguiti da significativi sviluppi, né tanto meno da condanne, possano ritenersi comunque ostativi al rilascio della cittadinanza, in quanto tali da far venir meno quel requisito dello “status illesae dignitatis” morale e civile richiesto nel soggetto richiedente…”.
In conclusione
Pertanto, il Collegio – di fatto controbilanciando le valutazioni di opportunità politico-amministrative sorrette dal principio di cautela col principio di legalità sostanziale – ha correttamente accolto il ricorso in appello, riformato la sentenza appellata e, per l’effetto, annullato il decreto di rigetto della concessione della cittadinanza impugnato in primo grado, facendo salvo il ri-esercizio della funzione da parte dell’Amministrazione competente.