Alla Corte Costituzionale l'onere di motivazione supplementare in materia di "in house providing"

Published On: 20 Novembre 2018Categories: Servizi pubblici e società partecipate

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria di Genova, con ordinanza del 15 novembre 2018 n. 886, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 192 comma 2 del D. Lgs. 18.4.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house di un contratto “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, paventando un contrasto della citata disposizione con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014).
Ritenuta la rilevanza della questione ai fini del decidere, il Collegio ha rilevato come essa fosse anche “non manifestamente infondata”.
E’ noto”, rammenta il Collegio, “l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la figura dell’in house providing (o autoproduzione), che costituisce una modalità di aggiudicazione di una concessione o di un appalto pubblico a soggetti formalmente distinti, ma sottoposti ad un controllo tanto penetrante di un’amministrazione da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, modalità alternativa al ricorso all’esternalizzazione (così detto outsourcing) mediante l’avvio di una procedura ad evidenza pubblica.
L’istituto, di origine pretoria (cfr. la sentenza della C.G.C.E., V, 18.11.1999, n. 107, società Teckal), ha trovato la sua prima codificazione nell’ordinamento europeo ad opera della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.2.2014, n. 2014/24/UE per i settori ordinari.
In particolare, il 5° considerando della direttiva n. 2014/24/UE chiarisce che “è opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Si tratta di una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2 comma 1 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.2.2014, n. 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, a mente del quale “la presente direttiva riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni” (cfr., in merito, anche CGCE, 11 gennaio 2005, C- 26/03, Stadt Halle, punto 48: “un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”).
Coerentemente con il citato principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche riconosciuto nel 5° considerando, l’art. 12 della direttiva n. 2014/24/UE esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house (a. l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi; b. oltre l’80 % delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; c. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata).
Dunque, a seguito della positivizzazione dell’istituto ad opera della direttiva n. 24/2014, che, in virtù della salvaguardia del principio di autorganizzazione degli Stati membri (5° considerando), esclude espressamente gli affidamenti in house dal proprio ambito di applicazione (art. 12), può ritenersi definitivamente acquisito – quantomeno in ambito europeo – il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica…”.
Tale principio, osserva ancora il Collegio “…può ritenersi oggi operante anche nell’ordinamento nazionale (in tal senso cfr., per esempio, Cons. di St., V, 15.3.2016, n. 1034; id., III, 24.10.2017, n. 4902; id., V, 18.7.2017, n. 3554), posto che, ai sensi dell’art. 34 comma 20 del D.L. 18.10.2012, n. 179 (convertito in legge 17.12.2012, n. 221), “per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”…”.
Rilevato a tal punto come “.. la norma specificamente dettata per i servizi pubblici locali di rilevanza economica – diversamente dall’art. 192 comma 2 del D. Lgs. n. 50/2016 – non contiene alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto all’istituto dell’in house, il Collegio ha quindi osservato come l’appena citata disposizione, laddove ha imposto un onere motivazionale supplementare relativamente alle “ragioni del mancato ricorso al mercato” abbia palesemente ecceduto rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014), in violazione dell’art. 76 della Costituzione.
E ciò in quanto l’art. 1 della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 ha fissato, tra l’altro, i seguenti princìpi e criteri direttivi specifici: a) divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (così detto divieto di gold plating); eee) garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti. L’iscrizione nell’elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all’ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all’ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto.
Orbene, secondo il Collegio, la disposizione sospettata di incostituzionalità avrebbe:
– innanzitutto violato il criterio direttivo sub a) – nonché l’articolo 14 commi 24-ter e 24-quater della legge 28 novembre 2005, n. 246, cui fa espresso rinvio – in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione – circa le ragioni del mancato ricorso al mercato – maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come visto supra, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica (cioè, il ricorso al mercato). Donde la violazione del divieto di gold plating, che costituiva uno specifico criterio di delega legislativa (lett. a).
– secondariamente violato anche il criterio direttivo sub eee), in quanto l’introduzione dell’obbligo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato per un verso non trova alcun addentellato nel criterio direttivo, che non lo menziona affatto, per altro verso – e soprattutto – non ha nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97 comma 1 del D. Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’ANAC, dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house. Donde la violazione dell’art. 1 lett. a) ed eee) della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 (parametro interposto) e, indirettamente, dell’art. 76 della Costituzione.
Da ciò, la sospensione del giudizio e la rimessione alla Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale dell’art. 192 comma 2 del D. Lgs. 18.4.2016, n. 50.

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Alla Corte Costituzionale l'onere di motivazione supplementare in materia di "in house providing"

Published On: 20 Novembre 2018

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria di Genova, con ordinanza del 15 novembre 2018 n. 886, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 192 comma 2 del D. Lgs. 18.4.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house di un contratto “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, paventando un contrasto della citata disposizione con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014).
Ritenuta la rilevanza della questione ai fini del decidere, il Collegio ha rilevato come essa fosse anche “non manifestamente infondata”.
E’ noto”, rammenta il Collegio, “l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la figura dell’in house providing (o autoproduzione), che costituisce una modalità di aggiudicazione di una concessione o di un appalto pubblico a soggetti formalmente distinti, ma sottoposti ad un controllo tanto penetrante di un’amministrazione da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, modalità alternativa al ricorso all’esternalizzazione (così detto outsourcing) mediante l’avvio di una procedura ad evidenza pubblica.
L’istituto, di origine pretoria (cfr. la sentenza della C.G.C.E., V, 18.11.1999, n. 107, società Teckal), ha trovato la sua prima codificazione nell’ordinamento europeo ad opera della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.2.2014, n. 2014/24/UE per i settori ordinari.
In particolare, il 5° considerando della direttiva n. 2014/24/UE chiarisce che “è opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Si tratta di una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2 comma 1 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.2.2014, n. 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, a mente del quale “la presente direttiva riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni” (cfr., in merito, anche CGCE, 11 gennaio 2005, C- 26/03, Stadt Halle, punto 48: “un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”).
Coerentemente con il citato principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche riconosciuto nel 5° considerando, l’art. 12 della direttiva n. 2014/24/UE esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house (a. l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi; b. oltre l’80 % delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; c. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata).
Dunque, a seguito della positivizzazione dell’istituto ad opera della direttiva n. 24/2014, che, in virtù della salvaguardia del principio di autorganizzazione degli Stati membri (5° considerando), esclude espressamente gli affidamenti in house dal proprio ambito di applicazione (art. 12), può ritenersi definitivamente acquisito – quantomeno in ambito europeo – il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica…”.
Tale principio, osserva ancora il Collegio “…può ritenersi oggi operante anche nell’ordinamento nazionale (in tal senso cfr., per esempio, Cons. di St., V, 15.3.2016, n. 1034; id., III, 24.10.2017, n. 4902; id., V, 18.7.2017, n. 3554), posto che, ai sensi dell’art. 34 comma 20 del D.L. 18.10.2012, n. 179 (convertito in legge 17.12.2012, n. 221), “per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”…”.
Rilevato a tal punto come “.. la norma specificamente dettata per i servizi pubblici locali di rilevanza economica – diversamente dall’art. 192 comma 2 del D. Lgs. n. 50/2016 – non contiene alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto all’istituto dell’in house, il Collegio ha quindi osservato come l’appena citata disposizione, laddove ha imposto un onere motivazionale supplementare relativamente alle “ragioni del mancato ricorso al mercato” abbia palesemente ecceduto rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014), in violazione dell’art. 76 della Costituzione.
E ciò in quanto l’art. 1 della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 ha fissato, tra l’altro, i seguenti princìpi e criteri direttivi specifici: a) divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (così detto divieto di gold plating); eee) garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti. L’iscrizione nell’elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all’ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all’ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto.
Orbene, secondo il Collegio, la disposizione sospettata di incostituzionalità avrebbe:
– innanzitutto violato il criterio direttivo sub a) – nonché l’articolo 14 commi 24-ter e 24-quater della legge 28 novembre 2005, n. 246, cui fa espresso rinvio – in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione – circa le ragioni del mancato ricorso al mercato – maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come visto supra, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica (cioè, il ricorso al mercato). Donde la violazione del divieto di gold plating, che costituiva uno specifico criterio di delega legislativa (lett. a).
– secondariamente violato anche il criterio direttivo sub eee), in quanto l’introduzione dell’obbligo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato per un verso non trova alcun addentellato nel criterio direttivo, che non lo menziona affatto, per altro verso – e soprattutto – non ha nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97 comma 1 del D. Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’ANAC, dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house. Donde la violazione dell’art. 1 lett. a) ed eee) della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 (parametro interposto) e, indirettamente, dell’art. 76 della Costituzione.
Da ciò, la sospensione del giudizio e la rimessione alla Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale dell’art. 192 comma 2 del D. Lgs. 18.4.2016, n. 50.

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