Concessioni demaniali marittime: il TAR Lecce riapre il dibattito e sottopone alla CGUE nove quesiti pregiudiziali
La Sezione Prima del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia di Lecce, con la recente ordinanza dell’11 maggio 2022 n. 743 , ha rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una serie di quesiti interpretativi pregiudiziali in merito all’annosa e discussa questione della proroga delle concessioni demaniali marittime.
I fatti da cui è scaturito il contenzioso
La vicenda esaminata dal Tar Lecce trae origine dal ricorso proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato avverso una delibera comunale del dicembre 2020 con cui un’Amministrazione comunale, da un lato, prendeva atto del dettato normativo di cui all’art. 1 commi 682, 683 e 684 della Legge nazionale n. 145/2018 (che prevede la proroga delle concessioni demaniali sino al 2033) e dell’art. 82 del D.L. 34/2020, e dall’altro adottava un atto di indirizzo per la predisposizione e l’attuazione delle disposizioni sopra indicate.
L’AGCM ha prima reso parere ex art. 21 bis della L. 287/1990, con cui, nell’evidenziare l’illegittimità di tale delibera, ha asserito che la normativa nazionale di proroga delle concessioni risultava in contrasto con la direttiva 2006/123/CE (direttiva Bolkestein), con conseguente obbligo di disapplicazione da parte di tutti gli organi dello Stato, sia giurisdizionali che amministrativi.
L’Amministrazione, nel formulare le proprie controdeduzioni al parere di AGCM, ha al contrario sottolineato la legittimità del proprio operato e non ha dunque ritenuto di adeguarsi all’invito formulato dall’Autorità.
Le censure del ricorso dell’AGCM
Stante il mancato adeguamento dell’amministrazione, l’AGCM, nel 2021, ha ritenuto di impugnare i deliberati comunali dinanzi al Tar Lecce, censurandoli per “violazione e falsa applicazione dell’art. 12 della Direttiva Bolkestein; violazione di principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nel mercato interno e dell’art. 49 T.F.U.E.; eccesso di potere e difetto di istruttoria”.
La decisione del TAR: l’analisi del quadro normativo nazionale in tema di (proroga) delle concessioni demaniali
Il Tar Lecce, nell’affrontare la questione sottoposta al suo esame, ha in primo luogo richiamato la normativa di riferimento, sia nazionale che comunitaria, in materia di proroga delle Concessioni demaniali.
Nella sua lunga e puntuale ricostruzione, ha in particolare ed in primo luogo rilevato che “…nell’ordinamento italiano la competenza in materia di concessioni sul demanio, originariamente in capo allo Stato, in virtù di due successivi decreti legislativi, è stata oggetto dapprima di delega alle Regioni e, successivamente, di sub-delega ai Comuni”.
Ciò, in un contesto nel quale – per un verso – “il presupposto stesso della ritenuta attrazione delle concessioni demaniali marittime nell’ambito della direttiva servizi è costituito proprio dalla esigenza di assicurare il rispetto dei principi di concorrenza e di libero accesso al mercato” e per altro e correlato verso “la materia della concorrenza è .. riservata in via esclusiva allo Stato ex art. 117 Costituzione, come costantemente statuito dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato in più occasioni l’illegittimità costituzionale delle varie leggi regionali dispositive di proroghe automatiche delle concessioni in essere, proprio ed esclusivamente sotto tale profilo (come si evince facilmente dalla mera lettura della parte motiva e del dispositivo)”.
Rilevato quindi come in materia, “la riconosciuta e radicata competenza dei comuni e, per essi, dei singoli dirigenti di settore non avrebbe …integrato profili di criticità qualora lo Stato Italiano avesse provveduto ad approvare una specifica normativa di effettiva attuazione della direttiva Bolkestein, idonea a garantirne effettiva ed uniforme applicazione sull’intero territorio nazionale”, il TAR Lecce ha anche osservato come “viceversa”, lo Stato Italiano ha “approvato norme (tra cui il D.L. 194/2009, convertito con Legge 26/2/2010 n.25) recanti recepimento solo formale della direttiva e dichiarazioni di massima sostanzialmente ripetitive dei principi generali espressi dall’atto unionale, rinviando – per la concreta disciplina di attuazione – ad ulteriori atti normativi invece mai intervenuti (avendo evidentemente lo Stato Italiano perseguito unicamente l’intento di paralizzare la procedura di infrazione n.2008/4908, nel frattempo avviata)”.
Sicché, in definitiva, “la normativa di secondo livello non è mai ..intervenuta e, per contro, il termine di proroga delle concessioni in essere, originariamente fissato al 31/12/2015, è stato quindi ulteriormente differito dapprima al 31/12/2020 e, successivamente, al 31/12/2033 (Legge 145/2018)”.
Con l’ulteriore conseguenza che – “in assenza di una effettiva legge di attuazione della direttiva e di una regolazione della materia con norme vincolanti ed efficaci sull’intero territorio nazionale” – la competenza dei singoli dirigenti comunali “ha intanto determinato uno stato di caos e di assoluta incertezza del diritto, con gravi ricadute negative sull’economia dell’intero settore, un settore strategico per l’economia nazionale”.
L’analisi e le valutazioni del TAR Lecce sulla natura della direttiva Bolkenstein
A tal punto, il Collegio ha effettuato un’articolata disamina sulla gerarchia delle fonti normative, sulle direttive c.d. self-executing e sulla natura non auto-esecutiva della direttiva Bolkestein.
Riguardo tale ultimo aspetto, il Tar adito, dopo aver evidenziato che la propria precedente giurisprudenza (cfr. tra le tante, T.A.R. Puglia – Sezione di Lecce, sentenza n. 71/2021) si era assestata nel senso di “escludere la natura auto-esecutiva della direttiva 2006/123” (affermando la “…conseguente impossibilità di immediata applicazione sul territorio nazionale in assenza della previa approvazione di una legge recante specifiche disposizioni attuative, ovvero regole uniformi per l’effettuazione delle gare, relative anche ai requisiti di partecipazione e ai criteri di aggiudicazione, nonché criteri uniformi di determinazione di eventuale «indennizzo» in favore del concessionario uscente…”), ha dato atto che “…siffatto orientamento è stato sconfessato dalle… sentenze del C.d.S. Ad. Plenaria 17 e 18 del 2021…” (di cui avevamo parlato in questo nostro articolo).
Il Collegio dunque, dopo aver richiamato sinteticamente le argomentazioni contenute nelle citate sentenze del Consiglio di Stato, ha rappresentato – d’un canto – di condividere la tesi espressa dall’Adunanza Plenaria in ordine alla “estraneità della direttiva Bolkestein alla materia del turismo, in quanto la direttiva attiene all’accesso e all’esercizio di attività imprenditoriale in sé considerata, risultando non significativo che tale attività si svolga in un settore di interesse turistico, materia del turismo, nella quale gli articoli 195 e 352 T.F.U.E. non consentono di adottare direttive di armonizzazione”.
Ma ha anche e d’altro canto ritenuto di non condividere “l’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria che qualifica la direttiva Bolkestein come di liberalizzazione e non di armonizzazione”.
“Siffatta qualificazione”, osserva il Collegio, “sembra in contrasto con l’interpretazione autentica della direttiva così come desumibile dalla stessa sentenza C.G.U.E. cd. Promoimpresa, nella quale, … al paragrafo 61 si legge: deve ritenersi che «gli articoli da 9 a 13 di questa stessa direttiva provvedano ad una armonizzazione esaustiva concernente i servizi che rientrano nel loro campo di azione».
Nell’ambito di una direttiva di armonizzazione, quale quella in esame, le norme sopra citate mirano infatti a determinare una armonizzazione esaustiva, nel senso che le stesse non si limitano a prescrivere generiche misure di armonizzazione, bensì l’adozione da parte dello Stato membro di disposizioni attuative di contenuto specifico e determinato.
La qualificazione della direttiva Bolkestein come direttiva di armonizzazione trova peraltro supporto nella stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, atteso che nella sentenza C.G.U.E. Grande Sezione del 30 gennaio 2018 sulle cause C-360/15 e C-31/16 (paragrafo 106) si legge: «al fine di attuare un autentico mercato interno dei servizi, l’approccio scelto dal legislatore dell’Unione nella direttiva 2006/123 si basa, come enunciato al suo considerando n. 7, su un quadro giuridico generale, formato da una combinazione di misure diverse destinate a garantire un grado elevato di integrazione giuridica nell’Unione per mezzo, in particolare, di una armonizzazione vertente su precisi aspetti della regolamentazione delle attività di servizio».
Proprio il chiaro tenore letterale del Considerando n. 7 della direttiva Bolkestein, ad avviso del Collegio, comprova ulteriormente che la Bolkestein è una direttiva di armonizzazione, in quanto il legislatore dell’Unione, proprio muovendo dalla rilevante diversità delle situazioni esistenti all’interno dei vari Stati, ha ritenuto di pervenire alla piena integrazione delle differenti normative solo in via mediata.
In ciò, ad avviso del Collegio, anche l’ulteriore conferma della natura non auto-esecutiva della direttiva Bolkestein, anche in relazione all’oggettivo contenuto dell’articolo 12 che, appunto, prescrive l’adozione di una specifica e determinata normativa nazionale di attuazione, ipotizzandola evidentemente come necessaria e imprescindibile (in tal senso dovendosi intendere il senso dell’efficacia diretta dell’articolo 12).
Sicchè, il Collegio ha ritenuto “non manifestamente infondata non solo la questione interpretativa della direttiva nei termini puntualmente di seguito prospettati, ma anche e preliminarmente necessaria una statuizione della Corte di Giustizia in ordine alla validità o meno della direttiva per violazione dell’articolo 115 T.F.U.E…” (in particolare l’art. 115 del Trattato individua la deliberazione all’unanimità delle direttive di armonizzazione).
L’analisi e le valutazioni del TAR Lecce sul rapporto tra norma nazionale e norma unionale (non direttamente applicabile)
Il Tar adito, quindi, si sofferma sul “rapporto tra norma nazionale e norma unionale non immediatamente applicabile, sotto il profilo della c.d. disapplicazione meramente ostativa della norma dello Stato nazionale o effettività di esclusione e della stessa teoria degli effetti diretti”, muovendo da alcune proprie “riflessioni” sul concetto di “disapplicazione”.
“Appare quasi superfluo evidenziare”, osserva in particolare il Collegio, “che in generale disapplicazione della legge equivale a violazione della legge” e che tale termine (“disapplicazione”) “può essere inteso in due modi: in senso assoluto o in senso relativo”.
La disapplicazione di una legge in senso assoluto “integra semplicemente aperta violazione della legge e, come tale, risulta inammissibile sia per il dirigente dell’amministrazione, sia per il giudice”.
La disapplicazione di una legge in senso relativo, ovvero “la disapplicazione di una legge finalizzata all’applicazione di altra legge, risulta invece logicamente inconcepibile ed inconsistente già sul piano terminologico”.
Ad avviso del Collegio, invero, “per il principio di completezza dell’ordinamento giuridico ogni fattispecie deve necessariamente trovare una sua disciplina normativa”, sicché, “il momento disapplicativo di una norma risulta in tal caso mero presupposto per l’applicazione di altra norma” e “pertanto – in tale ipotesi – ciò che dovrebbe venire in rilievo sul piano definitorio – prima che sul piano della logica e del buonsenso – non è tanto la presupposta disapplicazione di una norma, quanto l’applicazione dell’altra norma, quella prevalente e idonea a regolare la fattispecie (applicazione selettiva)”.
Ne deriva, ad avviso del Collegio, che “il concetto di disapplicazione in senso relativo risulta perfettamente inutile ed anzi fuorviante, in quanto ciò che viene in rilievo è in definitiva l’applicazione della norma prevalente, da individuarsi attraverso i noti e consolidati canoni ermeneutici deputati a dirimere il concorso di norme, tenuto conto della scala di gerarchia delle fonti del diritto» (ex multis T.A.R. Puglia -Sezione di Lecce n. 71/2021)”.
Tale tesi, continua il Collegio, “si inserisce nel più ampio dibattito relativo alla necessarietà o meno di effetti diretti della norma unionale come presupposto per la disapplicazione delle norme nazionali in conflitto, in particolare proprio con specifico riferimento alle direttive”.
“Il concetto di disapplicazione in senso assoluto della norma nazionale corrisponde all’invocabilità di esclusione (secondo la dottrina francese) e all’effetto di esclusione (secondo la dottrina anglosassone), così come il concetto di applicazione selettiva (o disapplicazione in senso relativo) risulta equivalente al principio di invocabilità di sostituzione o effetto di sostituzione.
In virtù del primato del diritto unionale, il giudice nazionale è tenuto ad applicare la norma unionale che, ove immediatamente applicabile, costituirà l’unico parametro di riferimento in sostituzione della norma nazionale, secondo il rigoroso rispetto della scala di gerarchia delle fonti del diritto.
Viceversa, a differenza dei regolamenti e con specifico riferimento alle direttive, il rapporto tra norma nazionale e direttiva appare più incerto e problematico, atteso che di regola la direttiva non è immediatamente esecutiva ed applicabile, necessitando di una norma interna di attuazione”.
Rispetto a tale seconda opzione, possono darsi ad avviso del Collegio, le seguenti evenienze:
A) “Nell’ipotesi di norme unionali auto-esecutive e immediatamente applicabili che siano in contrasto con norme nazionali” sussiste – sia per il Giudice Nazionale che per gli organi della PA – “l’obbligo di realizzare l’applicazione selettiva o l’invocabilità di sostituzione o effetto di sostituzione”, “come chiaramente indicato nella sentenza CGUE 22.6.1989 C103/88 “Fratelli Costanzo”, ove si stabilisce che tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, siano tenuti ad applicare le norme unionali auto-esecutive, disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi” (ed in tutta l’altra copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia per la quale “la primazia del diritto unionale sul diritto interno deve essere assicurata dallo stato membro in tutte le sue articolazioni”, ovvero sul presupposto logico della immediata e diretta applicabilità della norma dell’Unione Europea).
B) “Nell’ipotesi in cui invece la norma unionale non risulti di immediata applicabilità il giudice nazionale, in disparte la possibilità di rinvio pregiudiziale o di questione di costituzionalità, è tenuto ad applicare la norma nazionale, facendo tuttavia ricorso – ove possibile – al principio della c.d. interpretazione conforme, al fine di realizzare sostanzialmente un effetto il più aderente possibile ai principi espressi dalla direttiva e agli obiettivi dalla stessa perseguiti”.
Ciò, tenendosi anche conto di quella giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha delineato “i limiti di applicazione del principio di interpretazione conforme” (v. in particolare, sentenza Corte di Giustizia – Grande Sezione 15.4.2008 n. 268 C-268/06, per la quale “l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale”; CGUE 8.10.1987 causa 80/86; 16.6.2005 causa C 105/03).
Ed ancora considerando come “la Corte di Giustizia, con riferimento al conflitto di norma nazionale con norma unionale non immediatamente applicabile, ha ritenuto di precisare che l’interpretazione conforme non è ammissibile qualora la stessa pregiudichi i principi fondamentali di certezza del diritto e che la stessa non possa comunque giustificare di pervenire ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale, dovendosi conseguentemente ritenere tali principi e, in particolare, quello di certezza del diritto come il principio generale e fondamentale dell’ordinamento unionale”.
Ebbene, ad avviso del Collegio, “il principio di certezza del diritto, che presuppone quello di completezza dell’ordinamento giuridico, costituisce un limite non solo all’obbligo di interpretazione conforme, ma anche un limite ostativo all’effetto di mera esclusione, atteso che la disapplicazione o violazione della legge nazionale – in assenza di una norma unionale sostitutiva idonea a disciplinare la fattispecie e nelle ipotesi in cui non sia possibile il ricorso all’interpretazione conforme – determina un vulnus nell’ordinamento giuridico e una soluzione di continuità nella tutela giurisdizionale”.
“La teoria degli effetti diretti e lo stesso principio dell’effetto di mera esclusione, ovviamente con esclusivo riferimento al conflitto della norma interna con norma unionale non self-executing”, continua il Collegio, “risulta oggetto di particolare attenzione nella stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, così come si evince dalla sentenza sulla causa C- 579/15 Poplawski, con cui è stata esclusa la possibilità di disapplicazione della legge nazionale in conflitto con norma unionale non immediatamente applicabile”.
Ed ancora, “già con la sentenza sulla causa C322/88 la Corte di Giustizia aveva ritenuto che una norma unionale non sufficientemente chiara, precisa e incondizionata inidonea a determinare un effetto diretto non potesse giustificare, sul mero presupposto del primato del diritto unionale, la disapplicazione della legge nazionale da parte del giudice di uno Stato membro”.
A fronte di ciò, il Collegio ha pertanto ritenuto di precisare come, “in presenza di conflitto con norma unionale non immediatamente applicabile e nell’ipotesi in cui non risulti possibile il ricorso all’interpretazione conforme, la disapplicazione della norma di legge nazionale (l’unica applicabile) non è consentita al giudice nazionale (e, a maggior ragione, al funzionario della pubblica amministrazione), potendo in tal caso il giudice soltanto sollevare questione di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale, alla quale in via esclusiva compete di determinare l’effetto abrogativo o additivo di una norma di legge. In tale ipotesi l’effetto di mera esclusione va riguardato come meramente facoltativo per il giudice nazionale e non già come automatico e doveroso, ma sempre che la disapplicazione meramente ostativa o effetto di esclusione non comprometta l’esigenza primaria di salvaguardia della certezza del diritto, principio fondamentale ed imprescindibile anche nell’ordinamento dell’U.E”.
Ed inoltre che, avendo anche la Corte di Giustizia “considerato l’esigenza di salvaguardia della certezza del diritto come limite ostativo allo stesso principio dell’interpretazione conforme, escludendo peraltro che quest’ultimo possa spingersi fino ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale”, deve “conseguentemente ritenersi che la certezza del diritto debba intendersi come necessario presupposto logico anche con riferimento all’ipotesi in cui il ricorso all’interpretazione conforme non risulti accessibile per il giudice nazionale per assenza di una normativa di riferimento, come nel caso in esame”.
“Ed invero la mera disapplicazione della legge nazionale dispositiva della proroga (ad es. L. 145/2018), in applicazione del cosiddetto effetto di mera esclusione (disapplicazione ostativa), risulterebbe – per un verso – contra legem e – per altro verso – determinerebbe uno stato di assoluta incertezza del diritto nella materia in questione”.
“Nel caso di specie, infatti, la legge nazionale di proroga risulta chiara ed inequivoca nel suo dato letterale (in claris non fit interpretatio), mentre – sotto altro profilo – l’effetto di mera disapplicazione determinerebbe semplicemente un vuoto normativo, tale da impedire il ricorso all’interpretazione conforme proprio in ragione dell’assenza di una specifica normativa di riferimento”.
Laddove “la qualificazione della certezza del diritto come limite ostativo all’interpretazione conforme comporta di conseguenza l’applicazione della legge nazionale, con conseguente negazione in tal caso dell’effetto di mera esclusione.”
La decisione sul rinvio pregiudiziale e le singole questioni interpretative rimesse alla CGUE
Per tutte le suesposte considerazioni, il Collegio, ribadendo infine ed ancor più esplicitamente di non condividere “i presupposti logici, l’argomentare e le conclusioni espressi dalle citate sentenze gemelle” dell’Adunanza Plenaria, ha ritenuto “necessario avvalersi della facoltà per il giudice nazionale di adire la Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, in ragione dello specifico ed esclusivo ruolo alla stessa attribuito dall’ordinamento euro-unionale con riferimento alla natura di interpretazione autentica delle relative sentenze e del conseguente effetto vincolante per il giudice nazionale di ogni ordine e grado”, nonché in considerazione dello “stato di assoluta incertezza che si è determinato” (il quale, nota ancora il Collegio, “risulta destinato ad aggravarsi ulteriormente anche e soprattutto a seguito delle citate sentenze dell’Adunanza Plenaria, con le quali è stato peraltro inibito al legislatore di poter disporre di ulteriore proroga finalizzata all’espletamento delle complesse quanto necessarie attività istruttorie prodromiche all’effettiva attuazione della direttiva e al conseguimento degli obiettivi prestabiliti”).
E per l’effetto ha deciso di rinviare alla Corte di giustizia europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, i seguenti quesiti interpretativi:
1) “Se la direttiva 2006/123 risulti valida e vincolante per gli Stati membri o se invece risulti invalida in quanto – trattandosi di direttiva di armonizzazione – adottata solo a maggioranza invece che all’unanimità, in violazione dell’art 115 T.F.U.E.”;
2) “Se la direttiva 2006/123 c.d. Bolkestein presenti o meno oggettivamente ed astrattamente i requisiti minimi di sufficiente dettaglio della normativa e di conseguente assenza di spazi discrezionali per il legislatore nazionale tali da potersi ritenere la stessa auto-esecutiva e immediatamente applicabile”;
3) qualora ritenuta la direttiva 2006/123 non self-executing, se risulti compatibile con i principi di certezza del diritto l’effetto di mera esclusione o di disapplicazione meramente ostativa della legge nazionale anche nell’ipotesi in cui non risulti possibile per il giudice nazionale il ricorso all’interpretazione conforme ovvero se invece, in siffatta ipotesi, non debba o possa trovare applicazione la legge nazionale, ferme restando le specifiche sanzioni previste dall’ordinamento unionale per l’inadempimento dello stato nazionale rispetto agli obblighi derivanti dalla adesione al trattato (art. 49), ovvero derivanti dalla mancata attuazione della direttiva (procedura di infrazione)”;
4) “Se l’efficacia diretta dell’art. 12, paragrafi 1,2,3 della Direttiva 2006/123 equivalga al riconoscimento della natura self-executing o immediata applicabilità della direttiva medesima ovvero se, nell’ambito di una direttiva di armonizzazione quale quella in esame (“si deve ritenere che gli artt. da 9 a 13 della direttiva provvedano ad una armonizzazione esaustiva …” ex sentenza c.d. Promoimpresa), debba intendersi come prescrizione per lo stato nazionale di adottare misure di armonizzazione non generiche, ma vincolate nel loro contenuto”;
5) “Se la qualificazione di una direttiva come auto-esecutiva o meno e, nel primo caso, la disapplicazione meramente ostativa della legge nazionale possa o debba ritenersi di esclusiva competenza del giudice nazionale (al quale sono all’uopo attribuiti specifici strumenti di supporto interpretativo quali il ricorso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ovvero al giudizio di legittimità costituzionale) ovvero anche del singolo funzionario o dirigente di un comune“;
6) “qualora invece ritenuta la direttiva 2006/123 self-executing, premesso che l’art. 49 TFUE risulta ostativo alla proroga automatica delle concessioni-autorizzazioni demaniali marittime ad uso turistico ricreativo solo “nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”, se la sussistenza di tale requisito costituisca o meno un presupposto necessario anche con riferimento all’applicazione dell’art. 12 paragrafi 1 e 2 della direttiva Bolkestein”;
7) “Se risulti coerente rispetto ai fini perseguiti dalla direttiva 2006/123 e dallo stesso art. 49 TFUE una statuizione da parte del giudice nazionale relativa alla sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito dell’interesse transfrontaliero certo riferito tout-court all’intero territorio nazionale ovvero se, viceversa, stante in Italia la competenza dei singoli comuni, tale valutazione non debba intendersi riferita al territorio costiero di ciascun comune e, quindi, riservata alla competenza comunale“;
8) “Se risulti coerente rispetto ai fini perseguiti dalla direttiva 2006/123 e dallo stesso art. 49 TFUE una statuizione da parte del giudice nazionale relativa alla sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale ovvero se, viceversa, stante in Italia la competenza dei singoli comuni, tale valutazione non debba intendersi riferita al territorio costiero di ciascun comune e, quindi, riservata alla competenza comunale“;
9) “qualora in astratto ritenuta la direttiva 2006/123 self-executing, se tale immediata applicabilità possa ritenersi sussistere anche in concreto in un contesto normativo – come quello italiano – nel quale vige l’art. 49 Codice della Navigazione (che prevede che all’atto di cessazione della concessione “tutte le opere non amovibili restano acquisite allo Stato senza alcun compenso o rimborso”) e se tale conseguenza della ritenuta natura self-executing o immediata applicabilità della direttiva in questione ( in particolare con riferimento a strutture in muratura debitamente autorizzate ovvero a concessioni demaniali funzionalmente collegate ad attività turistico ricettiva, come hotel o villaggio) risulti compatibile con la tutela di diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, riconosciuti come meritevoli di tutela privilegiata nell’Ordinamento dell’U.E. e nella Carta dei Diritti Fondamentali”.