Corte di Giustizia: si al diritto di soggiorno derivato per il coniuge omosessuale extraUE

Published On: 14 Giugno 2018Categories: Diritti fondamentali della persona, Diritto civile, Europa, Tutele

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con l’importante sentenza del 5 giugno 2018, resa nella causa C-673/16, ha stabilito che, ai sensi delle disposizioni del diritto dell’Unione sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, la nozione di «coniuge» è neutra dal punto di vista del genere e riguarda anche il coniuge dello stesso sesso.
Pertanto, ferma restando l’autonomia degli Stati membri nell’autorizzazione del matrimonio omosessuale o egualitario, essi non possono comunque ostacolare la libertà di soggiorno di un cittadino dell’Unione sul loro territorio, rifiutando di concedere al coniuge dello stesso sesso, cittadino di un Paese non UE, un diritto di soggiorno derivato.
Nella fattispecie portata all’attenzione della Corte di Giustizia, nel 2012, un cittadino rumeno e un cittadino americano, sposatisi due anni prima in Belgio, avevano interrogato le autorità rumene sulle condizioni per attivare le procedure che avrebbero permesso al cittadino americano di soggiornare legalmente in Romania in virtù delle disposizioni della Direttiva 2004/38, poiché familiare del cittadino rumeno e dunque titolare di un diritto di soggiorno derivato.
In risposta, le autorità rumene avevano informato la coppia che non sarebbe stato possibile superare i limiti del permesso turistico, poiché il cittadino statunitense non avrebbe potuto esser qualificato come «coniuge», poiché lo Stato Rumeno noni matrimoni tra persone dello stesso sesso.
La Corte costituzionale rumena, investita di un’eccezione d’incostituzionalità sollevata nell’ambito della controversia che ne è scaturita, ha rimesso la relativa questione interpretativa alla Corte di giustizia.
La Corte di Giustizia, con la sentenza in rassegna, ha ricordato che la direttiva 2004/38 non può fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di un cittadino extra-Ue con situazione familiare come quella esplicitata nella controversia benchè, in alcuni casi, i cittadini di Stati non-Ue, familiari di un cittadino dell’Unione e non beneficiari delle disposizioni della direttiva, possano vedersi riconosciuto un diritto di soggiorno derivato sulla base dell’articolo 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, disposizione che conferisce direttamente ai cittadini dell’Unione il diritto fondamentale e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
La Corte ha quindi sottolineato che la nozione di «coniuge», indicante una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale, è neutra dal punto di vista del genere e, seppur le normative attinenti i vincoli matrimoniali siano materia di competenza degli Stati membri – i quali rimangono liberi di prevedere o meno il matrimonio omosessuale – il rifiuto di riconoscere il matrimonio (legalmente contratto in uno stato membro) di un cittadino di uno Stato non-Ue con un cittadino dell’Unione, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato, è atto che ostacola l’esercizio del diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Se si consentisse una tale limitazione, l’inaccettabile conseguenza sarebbe che la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione varierebbe da uno Stato membro all’altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale che disciplinano il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Ciò premesso, la Corte ha anche ricordato come la libera circolazione delle persone possa essere oggetto di restrizioni legate alla cittadinanza delle persone interessate, qualora tali restrizioni siano basate su considerazioni oggettive di interesse generale e siano proporzionate allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale (v., in tal senso, sentenze del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, C-353/06, EU:C:2008:559, punto 29; del 26 febbraio 2015, Martens, C-359/13, EU:C:2015:118, punto 34, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 48).
Essa quindi si è soffermata in particolare sui “motivi di interesse generale” che erano stati invocati nel procedimento dallo Stato rumeno e da alcuni altri Stati membri (nelle cui osservazioni si richiamavano in particolare ragioni connesse all’ordine pubblico e all’identità nazionale, di cui all’articolo 4, paragrafo 2, TUE).
Sul punto, la Corte – dopo aver ribadito che “..ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale (v. anche, in tale senso, sentenza del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 73 e giurisprudenza ivi citata)…” – ha riaffermato il principio per cui “..la nozione di «ordine pubblico», in quanto giustificazione di una deroga a una libertà fondamentale, dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. Ne consegue che l’ordine pubblico può essere invocato soltanto in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della società (v., in tal senso, sentenze del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 67, nonché del 13 luglio 2017, E, C-193/16, EU:C:2017:542, punto 18 e giurisprudenza ivi citata)..”.
Condizioni queste, che nel caso di specie, non sono state ritenute sussistenti, avendo invece la Corte ritenuto che l’obbligo di riconoscimento dei matrimoni egualitari, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, non attenta all’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico dello Stato membro interessato.
La Corte di Giustizia quindi – dopo aver rammentato che una misura nazionale idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone può essere giustificata solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e che l’articolo 7 della Carta garantisce il diritto fondamentale al rispetto della “vita privata” e “familiare” (nella cui nozione la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha già da tempo ricompreso la relazione che lega una coppia omosessuale: cfr. Corte EDU, 7 novembre 2013, Vallianatos e a. c. Grecia, CE:ECHR:2013:1107JUD002938109, § 73, nonché Corte EDU, 14 dicembre 2017, Orlandi e a. c. Italia, CE:ECHR:2017:1214JUD002643112, § 143) – ha affermato i seguenti principi:
1) In una situazione in cui un cittadino dell’Unione abbia esercitato la sua libertà di circolazione, recandosi e soggiornando in modo effettivo –  conformemente alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE – in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, e in tale occasione abbia sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo dello stesso sesso, al quale si è unito con un matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante, l’articolo 21, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno sul territorio di detto Stato membro al suddetto cittadino di uno Stato terzo, per il fatto che l’ordinamento di tale Stato membro non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
2) L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il cittadino di uno Stato terzo, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione, che abbia contratto matrimonio con quest’ultimo in uno Stato membro conformemente alla sua normativa, dispone di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi nel territorio dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza. Tale diritto di soggiorno derivato non può essere sottoposto a condizioni più rigorose di quelle previste all’articolo 7 della direttiva 2004/38.

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Corte di Giustizia: si al diritto di soggiorno derivato per il coniuge omosessuale extraUE

Published On: 14 Giugno 2018

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con l’importante sentenza del 5 giugno 2018, resa nella causa C-673/16, ha stabilito che, ai sensi delle disposizioni del diritto dell’Unione sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, la nozione di «coniuge» è neutra dal punto di vista del genere e riguarda anche il coniuge dello stesso sesso.
Pertanto, ferma restando l’autonomia degli Stati membri nell’autorizzazione del matrimonio omosessuale o egualitario, essi non possono comunque ostacolare la libertà di soggiorno di un cittadino dell’Unione sul loro territorio, rifiutando di concedere al coniuge dello stesso sesso, cittadino di un Paese non UE, un diritto di soggiorno derivato.
Nella fattispecie portata all’attenzione della Corte di Giustizia, nel 2012, un cittadino rumeno e un cittadino americano, sposatisi due anni prima in Belgio, avevano interrogato le autorità rumene sulle condizioni per attivare le procedure che avrebbero permesso al cittadino americano di soggiornare legalmente in Romania in virtù delle disposizioni della Direttiva 2004/38, poiché familiare del cittadino rumeno e dunque titolare di un diritto di soggiorno derivato.
In risposta, le autorità rumene avevano informato la coppia che non sarebbe stato possibile superare i limiti del permesso turistico, poiché il cittadino statunitense non avrebbe potuto esser qualificato come «coniuge», poiché lo Stato Rumeno noni matrimoni tra persone dello stesso sesso.
La Corte costituzionale rumena, investita di un’eccezione d’incostituzionalità sollevata nell’ambito della controversia che ne è scaturita, ha rimesso la relativa questione interpretativa alla Corte di giustizia.
La Corte di Giustizia, con la sentenza in rassegna, ha ricordato che la direttiva 2004/38 non può fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di un cittadino extra-Ue con situazione familiare come quella esplicitata nella controversia benchè, in alcuni casi, i cittadini di Stati non-Ue, familiari di un cittadino dell’Unione e non beneficiari delle disposizioni della direttiva, possano vedersi riconosciuto un diritto di soggiorno derivato sulla base dell’articolo 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, disposizione che conferisce direttamente ai cittadini dell’Unione il diritto fondamentale e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
La Corte ha quindi sottolineato che la nozione di «coniuge», indicante una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale, è neutra dal punto di vista del genere e, seppur le normative attinenti i vincoli matrimoniali siano materia di competenza degli Stati membri – i quali rimangono liberi di prevedere o meno il matrimonio omosessuale – il rifiuto di riconoscere il matrimonio (legalmente contratto in uno stato membro) di un cittadino di uno Stato non-Ue con un cittadino dell’Unione, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato, è atto che ostacola l’esercizio del diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Se si consentisse una tale limitazione, l’inaccettabile conseguenza sarebbe che la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione varierebbe da uno Stato membro all’altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale che disciplinano il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Ciò premesso, la Corte ha anche ricordato come la libera circolazione delle persone possa essere oggetto di restrizioni legate alla cittadinanza delle persone interessate, qualora tali restrizioni siano basate su considerazioni oggettive di interesse generale e siano proporzionate allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale (v., in tal senso, sentenze del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, C-353/06, EU:C:2008:559, punto 29; del 26 febbraio 2015, Martens, C-359/13, EU:C:2015:118, punto 34, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 48).
Essa quindi si è soffermata in particolare sui “motivi di interesse generale” che erano stati invocati nel procedimento dallo Stato rumeno e da alcuni altri Stati membri (nelle cui osservazioni si richiamavano in particolare ragioni connesse all’ordine pubblico e all’identità nazionale, di cui all’articolo 4, paragrafo 2, TUE).
Sul punto, la Corte – dopo aver ribadito che “..ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale (v. anche, in tale senso, sentenza del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 73 e giurisprudenza ivi citata)…” – ha riaffermato il principio per cui “..la nozione di «ordine pubblico», in quanto giustificazione di una deroga a una libertà fondamentale, dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. Ne consegue che l’ordine pubblico può essere invocato soltanto in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della società (v., in tal senso, sentenze del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C-438/14, EU:C:2016:401, punto 67, nonché del 13 luglio 2017, E, C-193/16, EU:C:2017:542, punto 18 e giurisprudenza ivi citata)..”.
Condizioni queste, che nel caso di specie, non sono state ritenute sussistenti, avendo invece la Corte ritenuto che l’obbligo di riconoscimento dei matrimoni egualitari, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, non attenta all’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico dello Stato membro interessato.
La Corte di Giustizia quindi – dopo aver rammentato che una misura nazionale idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone può essere giustificata solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e che l’articolo 7 della Carta garantisce il diritto fondamentale al rispetto della “vita privata” e “familiare” (nella cui nozione la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha già da tempo ricompreso la relazione che lega una coppia omosessuale: cfr. Corte EDU, 7 novembre 2013, Vallianatos e a. c. Grecia, CE:ECHR:2013:1107JUD002938109, § 73, nonché Corte EDU, 14 dicembre 2017, Orlandi e a. c. Italia, CE:ECHR:2017:1214JUD002643112, § 143) – ha affermato i seguenti principi:
1) In una situazione in cui un cittadino dell’Unione abbia esercitato la sua libertà di circolazione, recandosi e soggiornando in modo effettivo –  conformemente alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE – in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, e in tale occasione abbia sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo dello stesso sesso, al quale si è unito con un matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante, l’articolo 21, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno sul territorio di detto Stato membro al suddetto cittadino di uno Stato terzo, per il fatto che l’ordinamento di tale Stato membro non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
2) L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il cittadino di uno Stato terzo, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione, che abbia contratto matrimonio con quest’ultimo in uno Stato membro conformemente alla sua normativa, dispone di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi nel territorio dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza. Tale diritto di soggiorno derivato non può essere sottoposto a condizioni più rigorose di quelle previste all’articolo 7 della direttiva 2004/38.

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