Distinzione tra danno alla salute e danno da mancato consenso informato
In tema di responsabilità medica rileva, anche ai fini probatori e quantificativi, la distinzione tra danni alla salute discendenti dalla mancanza di consenso informato e danni al diritto all’autodeterminazione.
Lo ha confermato la III Sezione della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 22 agosto 2018, n. 20885 la quale, statuendo su una domanda di risarcimento danni presentata da un paziente che, come risultato di un intervento per una riduzione dell’ipermetropia, in assenza di adeguato consenso informato, aveva avuto un peggioramento della vista.
La Corte ha primariamente chiarito il superamento del principio di diritto (Cassazione n. 2847 del 2010) – richiamato in secondo grado dalla Corte d’Appello e posto alla base della pronuncia di rigetto – secondo il quale in tema di responsabilità medica, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito ma non preceduto da adeguata informazione, dal quale siano derivate tuttavia conseguenze dannose per la salute, il medico possa essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri che ove compiutamente informato egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’evento.
La Corte ha precisato che “…vanno tenuti distinti i casi in cui dalla lesione del diritto al consenso informato si siano verificate delle, pur incolpevoli, conseguenze lesive per la salute del paziente asseritamente discendenti dal trattamento sanitario (…) (danno alla salute), dai casi in cui il paziente faccia valere esclusivamente la diversa lesione del proprio diritto all’autodeterminazione in sé e per sé considerato, comunque discendente dalla violazione del relativo obbligo da parte del medico e della struttura sanitaria. Solo nella prima delle ipotesi citate, (risarcibilità del consenso informato in quanto ne è derivato danno alla salute) il danno sarà risarcibile nella misura in cui il danneggiato alleghi e provi, anche presuntivamente, che se compiutamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia, perché in questo modi viene fornita la prova del nesso causale tra la mancanza di un consapevole consenso e il danno alla salute verificatosi a seguito della sottoposizione all’operazione…”.
Preso atto che, nella seconda ipotesi, non sarà dunque necessaria la prova del rifiuto del trattamento ove la persona fosse stata compiutamente informata, tale danno non è tuttavia incondizionatamente risarcibile.
Trattandosi di un danno non patrimoniale invero, esso dovrà varcare la soglia della gravità dell’offesa affinché il giudice possa determinare il danno in via equitativa e il paziente dovrà dimostrare l’esistenza di pregiudizi riconducibili al trattamento.
Lo ha confermato la III Sezione della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 22 agosto 2018, n. 20885 la quale, statuendo su una domanda di risarcimento danni presentata da un paziente che, come risultato di un intervento per una riduzione dell’ipermetropia, in assenza di adeguato consenso informato, aveva avuto un peggioramento della vista.
La Corte ha primariamente chiarito il superamento del principio di diritto (Cassazione n. 2847 del 2010) – richiamato in secondo grado dalla Corte d’Appello e posto alla base della pronuncia di rigetto – secondo il quale in tema di responsabilità medica, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito ma non preceduto da adeguata informazione, dal quale siano derivate tuttavia conseguenze dannose per la salute, il medico possa essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri che ove compiutamente informato egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’evento.
La Corte ha precisato che “…vanno tenuti distinti i casi in cui dalla lesione del diritto al consenso informato si siano verificate delle, pur incolpevoli, conseguenze lesive per la salute del paziente asseritamente discendenti dal trattamento sanitario (…) (danno alla salute), dai casi in cui il paziente faccia valere esclusivamente la diversa lesione del proprio diritto all’autodeterminazione in sé e per sé considerato, comunque discendente dalla violazione del relativo obbligo da parte del medico e della struttura sanitaria. Solo nella prima delle ipotesi citate, (risarcibilità del consenso informato in quanto ne è derivato danno alla salute) il danno sarà risarcibile nella misura in cui il danneggiato alleghi e provi, anche presuntivamente, che se compiutamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia, perché in questo modi viene fornita la prova del nesso causale tra la mancanza di un consapevole consenso e il danno alla salute verificatosi a seguito della sottoposizione all’operazione…”.
Preso atto che, nella seconda ipotesi, non sarà dunque necessaria la prova del rifiuto del trattamento ove la persona fosse stata compiutamente informata, tale danno non è tuttavia incondizionatamente risarcibile.
Trattandosi di un danno non patrimoniale invero, esso dovrà varcare la soglia della gravità dell’offesa affinché il giudice possa determinare il danno in via equitativa e il paziente dovrà dimostrare l’esistenza di pregiudizi riconducibili al trattamento.