Immatricolazione all'Università in anni successivi al primo, senza test d'ingresso
E’ illegittimo il diniego di immatricolazione ad anno successivo al primo al corso di laurea magistrale a ciclo unico in “Medicina e Chirurgia”, disposto dall’Università degli Studi per il sol fatto del mancato sostenimento del test di ammissione, senza previa valutazione del curriculum universitario e degli esami sostenuti dall’istante, presso altra facoltà.
In tal senso si è pronunziato il TAR Lazio di Roma il quale, con la decisione del 10 maggio 2019 n.5909, ha accolto l’impugnativa proposta dalla ricorrente, già laureata in Biotecnologia, avverso un siffatto diniego, condividendosi – in punto di diritto – la “…astratta possibilità di riconoscimento degli esami sostenuti presso altra facoltà, senza che sia necessario affrontare il test (previsto in via esclusiva per il primo accesso a “Medicina e Chirurgia”), ove l’amministrazione universitaria riconosca l’equipollenza di tali esami con quelli previsti in tale facoltà, con maturazione di un numero di crediti formativi sufficienti per l’immatricolazione in anno successivo al primo, e sempre che per tale anno, a seguito di trasferimenti o rinunce, si sia verificata una scopertura dei posti disponibili (in tal senso, ex multis, questa Sezione, sentenza n. 1718/2019) …”.
Il TAR Lazio, in particolare, dopo aver accolto le ragioni difensive della ricorrente sin dalla fase cautelare, con la decisione in rassegna, richiamando i principi interpretativi desumibili dalla nota sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 28 gennaio 2015, ha riaffermato che:
– il superamento del test, di cui all’art. 1, commi 1 e 4, della legge 2 agosto 1999, n. 264 (Norme in materia di accesso ai corsi universitari) costituisce requisito di ammissione, ma “...non anche abilitazione o titolo ulteriore, indefettibilmente richiesto per accedere alla facoltà di Medicina e Chirurgia, in aggiunta al diploma di scuola secondaria superiore…”;
– coerentemente, pertanto, la citata normativa richiede che le prove di cui trattasi siano riferite al livello formativo assicurato, appunto, dagli studi liceali, in un logico “continuum temporale” fra detti studi e la prima ammissione al corso di laurea di cui trattasi;
– “…nessuno specifico requisito di ammissione, invece, è formalmente richiesto per i trasferimenti, disciplinati dall’art. 3, commi 8 e 9 del d.m. del 16 marzo 2007 (recante la “Determinazione delle classi di laurea magistrale”), limitandosi, infatti, tali norme a disporre il riconoscimento dei crediti già maturati dagli studenti, in caso di passaggio non solo ad una diversa università, ma anche ad un diverso corso di laurea, rimettendo la determinazione di criteri e modalità per effettuare tale riconoscimento ai regolamenti didattici, senza esclusione di eventuali colloqui per la verifica delle conoscenze possedute dallo studente…”;
– conseguentemente, “…solo per il primo accesso alla facoltà appare …ragionevole un accertamento della predisposizione agli studi da intraprendere, mentre per gli studenti già inseriti nel sistema (ovvero, già iscritti in università italiane o straniere) può richiedersi soltanto una valutazione dell’impegno complessivo di apprendimento, come dimostrato dall’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute…”;
– per il trasferimento, sia in ambito nazionale che con provenienza da università straniere, l’ammissione agli studi universitari si pone come requisito pregresso, divenuto irrilevante in quanto superato dal percorso formativo-didattico già seguito in ambito universitario (che deve, comunque, essere oggetto di rigorosa valutazione);
– non si pone, conclusivamente, alcun problema di “elusione” del percorso prescritto dalla legge, “…se gli obiettivi perseguiti vengono pienamente raggiunti per vie diverse, comunque rispettose delle capacità formative delle università e delle regole dalle medesime dettate per assicurare la più ampia possibile attuazione del diritto allo studio, costituzionalmente garantito, non senza un rigido e serio controllo del percorso formativo dello studente che chieda il trasferimento da altro Ateneo…”.
I basilari principi sopra sintetizzati sono stati ritenuti dal Collegio perfettamente adattabili alla fattispecie sottoposta al suo esame, apparendo peraltro “…conformi alla ratio, che giustifica sul piano costituzionale e comunitario la stessa previsione del cosiddetto “numero chiuso”, ovvero dell’accesso programmato a facoltà in cui il numero degli iniziali aspiranti superi di gran lunga le capacità formative degli atenei, nonché – per quanto noto in sede di programmazione – alle esigenze del sistema sociale e produttivo, in cui dovranno immettersi i nuovi professionisti (si confronti, per il principio, Corte Costituzionale, sentenza 11 dicembre 2013, n. 302 in tema di graduatoria unica nazionale; ordinanza 20 luglio 2007, n. 307; sentenza 27 novembre 1998, n. 383 sulla previgente l. n. 341/1990, come modificata con l. n. 127/1997 sulla base di principi speculari a quelli ora deducibili in rapporto alla l. n. 264/1999; Corte di Giustizia dell’Unione europea, III sezione, 12 giugno 1986)…”.
“Dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria sopra richiamata“, infatti, emerge ad avviso del Collegio, “…con chiarezza come il cosiddetto numero chiuso sia reso indispensabile dall’esigenza di assicurare, per la formazione di professionalità adeguate, che l’accesso alle facoltà di Medicina e Chirurgia sia subordinato alla congruità del rapporto fra numero di studenti e idoneità delle strutture, sotto il profilo non solo della didattica, ma anche della disponibilità di laboratori e della possibilità di avviare adeguate esperienze cliniche, nonché di accedere alle specializzazioni. Non ultima infine (ferma restando la priorità delle esigenze sopra indicate) è la finalità di assicurare – anche in considerazione della libera circolazione di professionisti in ambito U.E. – la possibilità di adeguati sbocchi lavorativi, da commisurare al fabbisogno nazionale, sul presupposto che vi sia un potenziale bilanciamento fra medici formati in altri Paesi dell’Unione, operanti in Italia, e medici italiani trasferiti in ambito comunitario. Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea – pur escludendo la sussistenza di un obbligo, a livello comunitario, di limitare il numero di studenti ammessi alle facoltà di Medicina – ha riconosciuto la facoltà dei singoli Stati di adottare le misure più opportune, per garantire i predetti, ottimali livelli di formazione, al fine di tutelare lo standard qualitativo della sanità pubblica. Ugualmente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha affermato che “in linea di principio, la limitazione dell’accesso agli studi universitari non è incompatibile con l’art. 2 del Protocollo n. 1, tenendo presenti le risorse disponibili e il fine di ottenere alti livelli di professionalità (…). Pertanto, l’applicazione del numero chiuso non può violare la citata norma se è ragionevole e nell’interesse generale della società. La materia ricade nell’ampio margine di apprezzamento dello Stato” (in tal senso, oltre alle sentenze sopra citate, T.A.R. Lazio, Roma, Sezione III, n. 9269/2005 e n. 10129/2017)….”.
Infine, il Collegio ha ritenuto di precisare che gli effetti conformativi della presente pronuncia implicano, nel caso di specie, “…la definitiva immatricolazione della ricorrente al secondo anno della facoltà di Medicina e Chirurgia, avendo l’Ateneo, in base ai parametri vigenti, già eseguito quel discrezionale apprezzamento sia di equipollenza che di sufficienza, a tal fine, dei crediti formativi, consentendo l’iscrizione della ricorrente, sul presupposto che sussistevano per tale anno posti disponibili, con conseguente rimozione della relativa riserva discendente dall’essere stata eseguita tale iscrizione in esecuzione della citata ordinanza cautelare…”.