Il tema della rappresentanza di genere nelle istituzioni politiche rappresentative, risulta essere di fondamentale importanza all’interno di un contesto che – quasi per definizione – è storicamente refrattario agli strumenti normativi volti al riequilibrio tra i sessi nell’accesso alle cariche elettive.
Gli strumenti oggi inseriti nel Rosatellum, infatti, nonostante siano ampiamente perfettibili e non privi di limiti che meglio vedremo appresso, sono una conquista frutto del superamento dei molti ostacoli posti sul cammino della parità di genere.
L’uguaglianza quale ostacolo sulla strada della parità
Il principio di cd. “uguaglianza formale” contenuto al primo capoverso dell’articolo 3 della Costituzione, renderebbe superflua – se non addirittura illegittima – ogni norma che preveda una riserva di posti assegnati ad un genere nelle cariche elettive, e tale concetto è stato posto a fondamento della sentenza numero 422 del 1995 della Corte Costituzionale, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una norma per l’elezione dei consiglieri comunali che stabiliva una riserva di quote fondata sul sesso dei candidati.
Da tale decisione si fece discendere l’illegittimità costituzionale di ogni altra norma sino a quel momento (ma anche successivamente) introdotta relativa ad analoghe misure di livello locale, regionale e nazionale, sul presupposto che tali strumenti non eliminino la causa della disparità di genere ma, agendo a valle, attribuiscano ad un determinato sesso un vantaggio ingiustificato.
Come sappiamo, però, all’uguaglianza formale va affiancata la cd. “uguaglianza sostanziale“, per cui è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che rendano effettivamente eguali i cittadini.
Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.
Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).
Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).
La rappresentanza di genere nell’attuale sistema elettorale
Come abbiamo già avuto modo di vedere in questa breve agenda elettorale, la legge con cui si andrà a votare il 25 settembre 2022 ha introdotto un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.
Giova ricordare che solo il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.
Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.
Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.
Tali misure, di per sé considerate, sono di certo strumenti efficaci alla promozione dell’equilibrio di genere in parlamento, anche alla luce della regola per cui in ciascun collegio plurinominale i candidati saranno eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista, poiché si è scongiurato un prevedibile ammassamento dei candidati di un solo genere in fondo alla lista stessa.
La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.
La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.
Aspetti problematici e limiti all’effettività del sistema di riequilibrio
Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.
Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario. Ma attualmente, così non è.
Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.
Per un terzo e più problematico aspetto, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).
Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere.
Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una.
Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.
Se il collegio è incerto, di sicuro il candidato capolista sarà uomo, poiché in caso di eventuale ottenimento di un seggio, ci sarà spazio solo per il candidato uomo e non di certo per la seconda in lista, donna.
Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, in barba alla parità di genere.
La strada intrapresa dal legislatore è di sicuro quella corretta ma, non potendo sperare in un rapido cambio di passo nella mentalità dei protagonisti della scena politica attuale, sarebbe necessario riadattare gli strumenti oggi messi in campo.
La parità di genere nel nostro sistema elettorale
Il tema della rappresentanza di genere nelle istituzioni politiche rappresentative, risulta essere di fondamentale importanza all’interno di un contesto che – quasi per definizione – è storicamente refrattario agli strumenti normativi volti al riequilibrio tra i sessi nell’accesso alle cariche elettive.
Gli strumenti oggi inseriti nel Rosatellum, infatti, nonostante siano ampiamente perfettibili e non privi di limiti che meglio vedremo appresso, sono una conquista frutto del superamento dei molti ostacoli posti sul cammino della parità di genere.
L’uguaglianza quale ostacolo sulla strada della parità
Il principio di cd. “uguaglianza formale” contenuto al primo capoverso dell’articolo 3 della Costituzione, renderebbe superflua – se non addirittura illegittima – ogni norma che preveda una riserva di posti assegnati ad un genere nelle cariche elettive, e tale concetto è stato posto a fondamento della sentenza numero 422 del 1995 della Corte Costituzionale, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una norma per l’elezione dei consiglieri comunali che stabiliva una riserva di quote fondata sul sesso dei candidati.
Da tale decisione si fece discendere l’illegittimità costituzionale di ogni altra norma sino a quel momento (ma anche successivamente) introdotta relativa ad analoghe misure di livello locale, regionale e nazionale, sul presupposto che tali strumenti non eliminino la causa della disparità di genere ma, agendo a valle, attribuiscano ad un determinato sesso un vantaggio ingiustificato.
Come sappiamo, però, all’uguaglianza formale va affiancata la cd. “uguaglianza sostanziale“, per cui è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che rendano effettivamente eguali i cittadini.
Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.
Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).
Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).
La rappresentanza di genere nell’attuale sistema elettorale
Come abbiamo già avuto modo di vedere in questa breve agenda elettorale, la legge con cui si andrà a votare il 25 settembre 2022 ha introdotto un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.
Giova ricordare che solo il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.
Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.
Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.
Tali misure, di per sé considerate, sono di certo strumenti efficaci alla promozione dell’equilibrio di genere in parlamento, anche alla luce della regola per cui in ciascun collegio plurinominale i candidati saranno eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista, poiché si è scongiurato un prevedibile ammassamento dei candidati di un solo genere in fondo alla lista stessa.
La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.
La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.
Aspetti problematici e limiti all’effettività del sistema di riequilibrio
Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.
Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario. Ma attualmente, così non è.
Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.
Per un terzo e più problematico aspetto, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).
Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere.
Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una.
Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.
Se il collegio è incerto, di sicuro il candidato capolista sarà uomo, poiché in caso di eventuale ottenimento di un seggio, ci sarà spazio solo per il candidato uomo e non di certo per la seconda in lista, donna.
Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, in barba alla parità di genere.
La strada intrapresa dal legislatore è di sicuro quella corretta ma, non potendo sperare in un rapido cambio di passo nella mentalità dei protagonisti della scena politica attuale, sarebbe necessario riadattare gli strumenti oggi messi in campo.
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Il tema della rappresentanza di genere nelle istituzioni politiche rappresentative, risulta essere di fondamentale importanza all’interno di un contesto che – quasi per definizione – è storicamente refrattario agli strumenti normativi volti al riequilibrio tra i sessi nell’accesso alle cariche elettive.
Gli strumenti oggi inseriti nel Rosatellum, infatti, nonostante siano ampiamente perfettibili e non privi di limiti che meglio vedremo appresso, sono una conquista frutto del superamento dei molti ostacoli posti sul cammino della parità di genere.
L’uguaglianza quale ostacolo sulla strada della parità
Il principio di cd. “uguaglianza formale” contenuto al primo capoverso dell’articolo 3 della Costituzione, renderebbe superflua – se non addirittura illegittima – ogni norma che preveda una riserva di posti assegnati ad un genere nelle cariche elettive, e tale concetto è stato posto a fondamento della sentenza numero 422 del 1995 della Corte Costituzionale, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una norma per l’elezione dei consiglieri comunali che stabiliva una riserva di quote fondata sul sesso dei candidati.
Da tale decisione si fece discendere l’illegittimità costituzionale di ogni altra norma sino a quel momento (ma anche successivamente) introdotta relativa ad analoghe misure di livello locale, regionale e nazionale, sul presupposto che tali strumenti non eliminino la causa della disparità di genere ma, agendo a valle, attribuiscano ad un determinato sesso un vantaggio ingiustificato.
Come sappiamo, però, all’uguaglianza formale va affiancata la cd. “uguaglianza sostanziale“, per cui è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che rendano effettivamente eguali i cittadini.
Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.
Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).
Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).
La rappresentanza di genere nell’attuale sistema elettorale
Come abbiamo già avuto modo di vedere in questa breve agenda elettorale, la legge con cui si andrà a votare il 25 settembre 2022 ha introdotto un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.
Giova ricordare che solo il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.
Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.
Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.
Tali misure, di per sé considerate, sono di certo strumenti efficaci alla promozione dell’equilibrio di genere in parlamento, anche alla luce della regola per cui in ciascun collegio plurinominale i candidati saranno eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista, poiché si è scongiurato un prevedibile ammassamento dei candidati di un solo genere in fondo alla lista stessa.
La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.
La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.
Aspetti problematici e limiti all’effettività del sistema di riequilibrio
Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.
Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario. Ma attualmente, così non è.
Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.
Per un terzo e più problematico aspetto, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).
Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere.
Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una.
Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.
Se il collegio è incerto, di sicuro il candidato capolista sarà uomo, poiché in caso di eventuale ottenimento di un seggio, ci sarà spazio solo per il candidato uomo e non di certo per la seconda in lista, donna.
Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, in barba alla parità di genere.
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