Condominio: la rilevante differenza tra innovazioni e modificazioni alla cosa comune
La Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con la recentissima ordinanza n. 36389 del 13 dicembre 2022, è intervenuta in tema di innovazioni e modificazioni per il miglior godimento della cosa comune, sancendo importanti princìpi in materia condominiale.
Il caso di specie
Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trae origine dal giudizio promosso da una condomina, la quale aveva presentato in assemblea una proposta per aprire un terrazzo a tasca sul tetto condominiale nella parte soprastante il proprio appartamento.
L’assemblea condominiale riteneva che tale lavoro configurasse una innovazione e che essa non fosse approvata in quanto non era stato raggiunto il quorum dei 2/3 (previsto dal combinato disposto dell’articolo 1120 del codice civile quinto comma dell’articolo 1136 del codice civile) per poterla eseguire.
La condomina quindi impugnava tale delibera ritenendola illegittima, in quanto i lavori da effettuare configuravano una semplice modificazione per il miglior godimento della cosa comune e non invece una innovazione, e pertanto gli stessi non erano soggetti all’approvazione assembleare col quorum rinforzato.
Il Tribunale adito in prime cure riteneva fondate le domande della condomina, le quali venivano poi respinte dalla Corte d’Appello, in accoglimento dell’appello proposto dal Condominio, statuendo che in difetto della prova della ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 1102 del codice civile (uso della cosa comune), l’opera realizzata dalla condomina (terrazzo a tasca) dovesse essere qualificata come innovazione e quindi inquadrarsi nella previsione di cui all’articolo 1120 del codice civile, con conseguente legittimità della delibera impugnata.
La condomina ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza di secondo grado, denunciando la violazione o falsa applicazione dell’articolo 1102 del codice civile, quanto al rapporto con l’articolo 1120 del medesimo codice, che la sentenza impugnata avrebbe ignorato.
L’analisi della Suprema Corte
La Corte di Cassazione, prima di pronunciarsi nel merito del ricorso, ha fatto chiarezza sulla interpretazione delle norme che vengono in luce nel caso di specie, sottolineando che secondo la costante ermeneusi fornita dalla giurisprudenza di legittimità:
1) le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: “…sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (ex multis, Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 6 – 2, 03/02/2022, n. 3440)…”.
2) L’opera sulle cose comuni che sia realizzata ad iniziativa di un condomino e a sue spese non può dunque residualmente valutarsi alla stregua dell’art. 1120 c.c.
3) A differenza delle innovazioni, “…le modifiche alle parti comuni dell’edificio, contemplate dall’art. 1102 c.c., possono essere apportate dal singolo condomino, nel proprio interesse e a proprie spese, al fine di conseguire un uso più intenso, sempre che non alterino la destinazione e non impediscano l’altrui pari uso. Le modifiche delle parti comuni che il singolo condomino intende apportare a proprie spese per il miglior godimento di esse non richiedono alcuna preventiva autorizzazione dell’assemblea, salvo che tale autorizzazione non sia imposta da una convenzione contrattuale approvata dai condomini nell’interesse comune, mediante esercizio dell’autonomia privata (ad esempio, Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4509)…” .
4) Sicché, “…alla eventuale autorizzazione ad apportare tali modifiche concessa dall’assemblea, può attribuirsi altrimenti il valore di mero riconoscimento dell’inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri condomini rispetto alla concreta utilizzazione del bene comune che voglia farne il singolo partecipante (Cass. Sez. 2, 20/02/1997, n. 1554)…”.
5) Inoltre, “…l’interpretazione di questa Corte spiega anche che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali…”.
6) Allorché il condominio (o altro partecipante) intende negare la legittimità della modificazione della cosa comune apportata dal singolo condomino “…il superamento dei limiti del pari uso, di cui all’art. 1102 c.c., si configura come un fatto costitutivo, inerente alle condizioni dell’azione esperita, sicché deve essere provato dallo stesso condominio, mentre la deduzione, da parte dell’autore, della legittimità della modifica non comporta alcun onere probatorio a carico del medesimo…” .
Orbene, posti i superiori princìpi, la Suprema Corte passa alla loro applicazione al caso di specie e stabilisce che:
– nella fattispecie in esame, si verte sulla impugnazione da parte di una condomina della deliberazione dell’assemblea di condominio con cui è stata rigettata la propria richiesta di modificare il tetto condominiale, per mancato raggiungimento della maggioranza ritenuta necessaria e per difetto delle condizioni di liceità dell’uso della cosa comune ex art. 1137 c.c.;
– in tema di impugnazione della deliberazione dell’assemblea condominiale, l’onere di provare il vizio di contrarietà alla legge o al regolamento di condominio, da cui deriva l’invalidità della stessa, grava sul condomino che la impugna;
– la contrarietà alla legge della impugnata deliberazione discende dalla constatazione che le modifiche alle parti comuni dell’edificio, contemplate dall’art. 1102 c.c., possono essere apportate dal singolo condomino, nel proprio interesse e a proprie spese, senza necessità di alcuna preventiva autorizzazione dell’assemblea, salvo che tale autorizzazione non sia imposta da una convenzione contrattuale approvata dai condomini nell’interesse comune;
– allorché l’assemblea deneghi comunque l’autorizzazione ad apportare tali modifiche, come nella specie, opponendosi alla concreta utilizzazione del bene comune che voglia farne il singolo partecipante, così adottando un provvedimento non previsto dalla legge o dal regolamento, spetta al condomìnio dimostrare il superamento dei limiti del pari uso, di cui all’art. 1102 c.c., che possa perciò giustificare la legittima espressione della volontà collettiva dei partecipanti a tutela delle esigenze conservative dei diritti inerenti alle parti comuni;
– pertanto, “…ove il condomino esperisca, in via di azione, una impugnazione di deliberazione dell’assemblea, allegando l’invalidità della stessa per avergli negato un uso legittimo della cosa comune e perciò postulando l’inesistenza della attribuzione collegiale ad impedire tale uso, nell’applicare le regole di distribuzione dell’onere probatorio poste dall’art. 2697 c.c. occorre, quindi, dare rilievo non al criterio dell’iniziativa processuale, bensì al criterio di natura sostanziale relativo alla posizione delle parti riguardo ai diritti oggetto del giudizio, sicché l’onere di provare il superamento dei limiti del pari uso, di cui all’art. 1102 c.c., grava sul condominio che si afferma titolare della potestà deliberativa a tutela dei diritti inerenti alle parti comuni…”.
I princìpi di diritto espressi dalla Suprema Corte
Alla luce delle superiori considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso della condomina e in accoglimento dello stesso ha enunciato i seguenti princìpi di diritto:
1) “…le modificazioni per il miglior godimento della cosa comune (a differenza delle innovazioni che vengono deliberate dall’assemblea nell’interesse di tutti i partecipanti ai sensi dell’art. 1120 c. c.) possono essere apportate a proprie spese dal singolo condomino con i limiti indicati dall’art. 1102 c. c. e non richiedono alcuna preventiva autorizzazione assembleare, salvo che tale autorizzazione non sia imposta da una convenzione contrattuale approvata dai condomini nell’esercizio dell’autonomia privata, potendo altrimenti attribuirsi all’eventuale autorizzazione alle modifiche comunque richiesta o concessa dall’assemblea il valore di mero riconoscimento dell’inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri condomini rispetto alla utilizzazione del bene comune che voglia farne il singolo partecipante..”;
2) “…in tema di impugnazione della deliberazione dell’assemblea condominiale, l’onere di provare il vizio di contrarietà alla legge o al regolamento di condominio, da cui deriva l’invalidità della stessa, grava sul condomino che la impugna; ove, tuttavia, l’assemblea neghi ad un condomino l’autorizzazione ad apportare modifiche alle parti comuni, così adottando un provvedimento non previsto dalla legge o dal regolamento, avuto riguardo alla posizione delle parti riguardo ai diritti oggetto del giudizio, spetta al condominio dimostrare il superamento dei limiti del pari uso, di cui all’art. 1102 c. c., che possa perciò giustificare la legittima espressione della volontà collettiva dei partecipanti a tutela delle esigenze conservative delle parti comuni…”.