La modifica del cognome è possibile e legittima se la richiesta è fondata e non vi sono interessi pubblici contrastanti
La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza del 19 settembre 2023 numero 8422, si è pronunciata sui requisiti necessari per richiedere e ottenere la modifica del proprio cognome da parte del competente Ministero dell’Interno.
Il Collegio, seppur abbia riconosciuto l’eccezionalità di una tale modifica, ha comunque ritenuto che l’assegnazione del cognome debba intendersi funzionale alla migliore costruzione dell’identità personale di un figlio, la cui richiesta di cambiamento può essere denegata solo indicando specifiche ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento.
La vicenda
Ricostruendo la vicenda concreta sottoposta all’esame del Consiglio di Stato, nel 2018 la ricorrente ha chiesto alla Prefettura di Prato di modificare il proprio cognome, sostituendo quello paterno con quello materno, poiché dopo il divorzio dei genitori il padre non si sarebbe mai preoccupato del suo sostentamento né avrebbe avuto interesse ad instaurare e mantenere con lei un rapporto di tipo affettivo; anzi, a detta della ragazza, il padre avrebbe tenuto un atteggiamento sistematicamente anaffettivo e arrogante, negandole persino il saluto.
La ragazza ha sottolineato che la decisione di assumere esclusivamente il cognome materno fosse maturata e consolidata nel tempo, divenendo “…ponderata e certa […] per onorare l’impegno e la forza con cui la figura materna ha saputo compensare un vuoto e una ferita che avrebbero potuto causare conseguenze assai più dannose e cicatrici più profonde sulla mia persona e dentro di me…”.
In sede di istruttoria procedimentale, avendo la Prefettura richiesto la produzione di ulteriori argomentazioni e documenti a supporto della richiesta, l’istante ha prodotto una propria nota e una dichiarazione sottoscritta dalla madre.
L’Amministrazione, tuttavia, ha ritenuto di rigettare la richiesta sulla base della seguente motivazione “…- il nome e il cognome sono elementi fondanti dell’identità personale e (…) le modalità di attribuzione degli stessi sono dettate in maniera esplicita e dettagliata dal codice civile e dall’ordinamento dello stato civile;” – “la modificazione del nome e del cognome rivestono carattere oggettivamente rilevanti e può essere ammessa solo ed esclusivamente in presenza di situazioni oggettivamente rilevanti, supportate da adeguata e pregnante documentazione e da solide e significative motivazioni;”.
Tale rigetto è divenuto l’oggetto del giudizio di primo grado dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana.
Il giudizio
La ricorrente ha affidato il ricorso introduttivo avverso il provvedimento di rigetto a tre censure, e in particolare: “- in base all’art. 89 del D.P.R. 30 novembre 2000, n. 396, il cambiamento del cognome non avrebbe carattere eccezionale e potrebbe essere richiesto anche per altre ragioni oltre a quelle ivi indicate a titolo esemplificativo; – l’Amministrazione avrebbe dovuto indicare le ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento della sua istanza, che nel caso di specie, nel provvedimento non sarebbero state esternate, sicché il provvedimento impugnato sarebbe carente nella motivazione; – inoltre, non vi sarebbe corrispondenza tra il contenuto del provvedimento impugnato e quanto rappresentato nel preavviso di diniego…”.
Con sentenza del febbraio 2019, il Tribunale Amministrativo di primo grado ha accolto il ricorso, ritenendo il provvedimento impugnato carente nella motivazione posta a sostegno del rigetto.
Il Ministero ha pertanto proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato avverso la decisione, chiedendone la riforma e insistendo per la tutela cautelare in appello, comunque denegata dal Collegio.
In particolare, l’Amministrazione appellante ha innanzitutto ribadito che il diritto al nome sia un “…diritto fondamentale ed assoluto della persona, la cui funzione è quella di radicare e collegare l’individuo con la propria comunità familiare di appartenenza; tale diritto trova la sua copertura costituzionale nell’art. 2 Cost., come diritto all’identità personale inviolabile, nell’art. 8 della CEDU e nell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali UE…” sottolineando quindi “…che il diritto del singolo deve fronteggiarsi con l’esigenza pubblicistica alla stabilità e alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale, e quindi, alla certezza degli atti e dei rapporti giuridici…”.
Il Ministero ha posto l’accento soprattutto sull’articolo 6 del Codice civile, secondo cui “non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità di legge indicati”, ritenendo dunque l’inesistenza di un vero e proprio diritto soggettivo al cambiamento di nome, trattandosi tuttalpiù di un interesse legittimo sottoposto comunque alla discrezionalità amministrativa.
In conclusione, a dire dell’Amministrazione resistente, l’istanza della ricorrente non sarebbe stata corredata da adeguata documentazione a supporto “…non essendo stati prodotti documenti giudiziari avviati nei confronti del padre per il mancato mantenimento, né fornite prove concrete in merito a quanto indicato nella richiesta di cambio di cognome, in relazione all’asserito inesistente, o quantomeno difficile, rapporto con il padre…”.
La ricostruzione normativa e giurisprudenziale
Il Consiglio di Stato, con la decisione in rassegna, ha innanzitutto proceduto alla disamina della fattispecie concreta, operando alcune precisazioni.
Il Collegio, infatti, ricostruendo la normativa applicabile al cambio di nome e richiamando l’articolo 89 del D.P.R. n. 396/2000, ha ritenuto sostanzialmente corretti i princìpi esposti dall’Amministrazione in sede di appello, poiché la valutazione del Prefetto circa l’istanza di cambio del cognome si configura come un potere discrezionale esercitato bilanciando interesse pubblico e privato.
A tal fine, il Collegio ha dapprima richiamato la nota n. 14/2012 dello stesso Ministero dell’Interno, in cui si chiarisce l’importanza che il giudizio del Prefetto sia ben ponderato e che il provvedimento definitivo sia accompagnato da una motivazione “…che dia conto del processo argomentativo alla base di ciascuna decisione, valutati anche gli interessi di eventuali controinteressati…”, ricostruendo poi la giurisprudenza amministrativa da cui si evince che “…l’art. 89 cit. non consente al richiedente di ‘scegliere’ il proprio nome: altrimenti opinando, vi sarebbe un serio vulnus a tale interesse pubblico, che riguarda tutti gli aspetti della vita degli individui, nei loro molteplici rapporti (anche informatici) con i soggetti pubblici e privati…”.
Venendo al caso di specie, il Consiglio ha ritenuto necessario anche richiamare alcuni dei princìpi esposti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 131/2022, per effetto della quale è mutato il regime normativo relativo all’attribuzione del cognome alla nascita, seppur non si tratti di modifiche normative applicabili al caso di specie.
Tali princìpi espressi dalla Suprema Corte possono di certo assumere rilevanza nell’esercizio del potere discrezionale del Prefetto, ponendo l’accento sul “…cambio di prospettiva che la Corte Costituzionale ha abbracciato in ordine alla portata e alla valenza del cognome dell’individuo, anche in ragione dell’influenza della Corte EDU. Da un iniziale approccio teso ad assumere il cognome come segno distintivo della famiglia e, quindi, come strumento per individuare l’appartenenza della persona a un determinato gruppo familiare (Corte Cost., ordinanze n. 176/1988 e n. 586/1988), si è passati ad un processo di valorizzazione del diritto all’identità personale, valore assoluto avente copertura costituzionale ex art. 2 Cost., in virtù del quale il cognome assurge ad espressione dell’identità del singolo (Corte Cost. n. 286/2016)…”.
A supporto di questo ribaltamento concettuale, il Collegio ha rilevato che “…la originaria procedura di attribuzione del cognome era basata, come rilevato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 61/2006, su un sistema costituente retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affondava le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e di una tramontata potestà maritale, non più ritenuta coerente con i princìpi dell’ordinamento. Tale sistema è stato abbandonato dalla Corte Costituzionale, anche a seguito della condanna dello Stato italiano da parte della Corte EDU (Cusan-Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014), dapprima, con la citata pronuncia n. 286/2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che non consentono ai coniugi di trasmettere, di comune accordo, il cognome materno e, più di recente, con la sentenza n. 131/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre con riferimento ai figli nati “dentro e fuori dal matrimonio” e a quelli adottivi (cfr. sul punto TAR Lazio, Sez. I Ter, 1 luglio 2022 n. 8964)…”.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato pertanto, rilevando una particolare sensibilità del “cognome” rispetto alla testimonianza del legame del figlio con i genitori, ha rigettato l’appello proposto dall’Amministrazione “…atteso che le motivazioni addotte dalla richiedente sono indicative di una palese divergenza tra la sua identità personale ed il cognome che le è stato attribuito, che costituisce espressione di un vincolo familiare con il padre, che nella realtà non vi è stato; dalla lettura della documentazione prodotta in giudizio emerge in modo palese il solo legame della ricorrente con la madre, unica figura di riferimento che le ha consentito di formarsi un’identità personale, della quale ha chiesto il riconoscimento formale attraverso l’acquisizione del relativo cognome. Il cambio di cognome, in pratica, costituisce, per la richiedente, lo strumento per recidere un legame solo di forma, impostole per legge, che negli anni ha pesato sulla sua condizione personale, in quanto del tutto estraneo alla sua identità personale…”.
Proprio tenendo in considerazione i princìpi espressi dalla Corte Costituzionale in tema di identità personale e attribuzione del nome, il Consiglio di Stato ha ritenuto che le “serie e ponderate” ragioni addotte dalla ragazza a sostegno dell’istanza avrebbero meritato un approfondimento maggiore da parte della Prefettura, che ha omesso del tutto di individuare i motivi di pubblico interesse ostativi all’accoglimento.
La ricorrente ha prodotto tutto quanto ciò di cui disponeva (non essendosi proceduto ad ulteriori azioni giudiziarie nei confronti del padre poiché nullatenente) e in virtù dell’asserita carenza probatoria, la Prefettura piuttosto che rigettare avrebbe dovuto acquisire ulteriori informazioni direttamente dal controinteressato.
Il Collegio ha dunque confermato l’annullamento del provvedimento di rigetto impugnato in primo grado per difetto di motivazione e di istruttoria, compensando tuttavia le spese legali per la particolarità del tema trattato.