Concessioni demaniali marittime: l’Adunanza Plenaria riafferma la primazia del diritto eurounitario e la necessità della gara ad evidenza pubblica, a partire dal 31.12.2023
A distanza di soli 20 giorni dalla Udienza di trattazione del 20.10.2021, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con le decisioni gemelle nn. 17 e 18 pubblicate lo scorso 09.11.2021 (Pres. F. Patroni Griffi, Relatori: S.R. Molinaro e R. Giovagnoli), ha affrontato le plurime ed articolate questioni di diritto, sollevate d’ufficio, relative al regime della proroga sino al 2033, prevista dall’art. 1, commi 682 e seguenti della legge 415/2018, per le concessioni balneari e più in generale delle concessioni demaniali marittime, lacuali o fluviali ed alla moratoria, con facoltà di prosecuzione delle relative attività, contemplata dall’art. 182, comma 2, d.l. 34/2020 (convertito in legge n. 77/2020).
L’importanza, anche socio-economica, delle tematiche e la vasta eco che hanno avuto anche presso l’opinione pubblica rende opportuna una analisi dettagliata delle due decisioni che, va subito detto, hanno ri-affermato il principio (eurounitario) della prevalenza della gara ad evidenza pubblica e della disapplicazione (e disapplicabilità) delle norme interne difformi, così ponendosi in linea coi precedenti arresti della giurisprudenza sia nazionale che sovranazionale, ma hanno al contempo ritenuto opportuno fare uso di un non consueto potere: quello di modulazione degli effetti temporali della decisione giurisdizionale, per contenerne il sicuro “notevole impatto” sia sociale che economico.
Il deferimento, d’ufficio, delle questioni di diritto alla Adunanza Plenaria.
E’ stato lo stesso lo stesso Presidente del Consiglio di Stato che, con decreto 160/2021, in relazione a due autonome vertenze pendenti sulle tematiche in rassegna, in grado d’appello, l’una dinanzi al Consiglio di Stato di Roma (Sez. IV) e l’altra al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, ha ritenuto di investire, d’ufficio, l’Adunanza Plenaria delle questioni ivi trattate, ritenute “particolare rilevanza economico-sociale” e di “notevole impatto sistemico”, in quanto afferenti “al rapporto tra il diritto nazionale e il diritto unionale, con specifico riguardo al potere di disapplicazione delle norme interne, ritenute contrastanti con quelle sovranazionali, da parte del giudice amministrativo”.
Ritenendo opportuna una pronuncia nomofilattica dell’Adunanza plenaria, “onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”, sono state quindi rimesse, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a., le seguenti questioni di diritto (o quesiti):
1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-executing, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all‘accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva;
2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio.
3) con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77 – in funzione della “necessità di rilancio del settore turistico e al fine di contenere i danni, diretti e indiretti, causati dall’emergenza epidemiologica da COVID-19” ed in relazione all’avvio delle procedure ad evidenza pubblica per l’assegnazione delle aree oggetto di concessione demaniale marittima, lacuale e fluviale e con conseguente facoltà di prosecuzione delle relative attività – e per l’ipotesi in cui la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, se debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145.
La preliminare ricostruzione da parte dell’Adunanza Plenaria dei principali approdi del diritto eurounitario.
La disamina del Supremo Consesso della Giustizia Amministrativa prende le mosse – al par. 11 delle due decisioni – da una delle principali decisioni intervenute in materia della Corte di giustizia U.E.: la sentenza 14.07.2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa.
In tale decisione, rammenta la Plenaria, la Corte di Giustizia ha affermato, in sintesi, i seguenti principi: (a) l’art.12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno e conosciuta anche come Direttiva Bolkestein, “deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; (b) l’art.49 TFUE “deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”.
Dopo tale sentenza e nonostante i successivi e copiosi pronunciamenti dei Giudici nazionali, “il dibattito sulla compatibilità comunitaria della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege è continuato, soprattutto in ambito dottrinale”, contestandosi apertamente l’applicabilità sia dei principi generali a tutela della concorrenza desumibili dall’art. 49 TFUE, sia dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE.
Quanto all’art. 49 TFUE, ricorda la Plenaria, ne è stata in particolare messa in discussione l’applicabilità, “ritenendo mancante nel caso di specie il requisito dell’interesse transfrontaliero certo, il cui accertamento è stato rimesso dalla Corte di giustizia alla valutazione del giudice nazionale”. Quanto invece all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, sono stati mossi due ordini di obiezioni: “il primo volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa (requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale); il secondo, che entra in contrasto frontale con la sentenza del giudice europeo, volto radicalmente ad escludere la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi, nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva”.
Entrambi gli ordini di obiezioni, ad avviso della Plenaria, non sono condivisibili; sicchè, viene qui ribadito il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere (nonché la moratoria di tali procedure, in ragione del sopravvenire dell’emergenza epidemiologica, ex art. 182 del DL 34/2020).
E ciò, per le seguenti considerazioni.
Sulla applicabilità dell’art. 49 TFUE e sulle ragioni del rilevato contrasto della disciplina nazionale, anche in relazione alla sussistenza di un “interesse transfrontaliero certo”.
Al riguardo, rileva la Plenaria, va considerato quanto chiarito dalla Corte di giustizia, sin dalla nota sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress, ove si era affermato come “qualsiasi atto dello Stato che stabilisce le condizioni alle quali è subordinata la prestazione di un’attività economica sia tenuto a rispettare i principi fondamentali del trattato e, in particolare, i principi di non discriminazione in base alla nazionalità e di parità di trattamento, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva. Come detto in precedenza, nell’ottica della Corte detto obbligo di trasparenza impone all’autorità concedente di assicurare, a favore di ogni potenziale offerente, un “adeguato livello di pubblicità” che consenta l’apertura del relativo mercato alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle relative procedure di aggiudicazione”.
La Corte di Giustizia, ricorda ancora la Plenaria, “ha inizialmente elaborato tale giurisprudenza per disciplinare quelle commesse pubbliche che, per la loro natura giuridica o per le loro ridotte dimensioni, sono sottratte alle regole della concorrenza previste dalla normativa europea in tema di appalti pubblici”.
Le ragioni di fondo di tale giurisprudenza giustificano – “come, del resto, chiaramente confermato dalla sentenza Promoimpresa del 2016” – la loro applicazione ad ogni fattispecie (anche non avente carattere puramente negoziale per il diritto interno) che dia luogo a prestazione di attività economiche o che comunque costituisca condizione per l’esercizio di dette attività.
Sicchè e più precisamente, per tale giurisprudenza, “quando sia accertato che un contratto (di concessione o di appalto), pur se si colloca al di fuori del campo di applicazione delle direttive, presenta un interesse transfrontaliero certo, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di tale contratto ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto”.
Precisandosi ulteriormente come l’interesse transfrontaliero certo consista “nella capacità di una commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri” (e vada valutato alla luce degli indici identificativi elaborati dalla stessa giurisprudenza unionale: Corte di giustizia, 15.05.2008, C. 147/06; 21.07.2005, causa C-231/03, Coname; 15.05.2008, C. 147/06; 06.10.2016, n. 318).
Ritenuto necessario un adattamento di detti criteri ed indici identificativi al diverso mercato delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, la Plenaria rileva quindi come in tali casi “a venire in considerazione come strumento di guadagno offerto dalla p.a. non è il prezzo di una prestazione né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio avente rilevanza economica” (come avviene nel caso degli appalti o delle concessioni di sevizi), bensì la messa a disposizione da parte della Pubblica Amministrazione, a favore dei privati concessionari, di “un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo”. E lo fa dietro pagamento dei canoni di concessione, “il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime”.
Per tale via, quindi, la Plenaria ha affermato la sussistenza anche in tale ambito del c.d. interesse transfrontaliero certo, in particolare legato alla “eccezionale capacità attrattiva che da sempre esercita il patrimonio costiero nazionale, il quale per conformazione, ubicazione geografica, condizioni climatiche e vocazione turistica .. esercita .. una indiscutibile capacità attrattiva verso le imprese di altri Stati membri”.
“Pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole delle concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici”, continua la Plenaria, “rappresenta una posizione insostenibile, non solo sul piano costituzionale nazionale (dove pure è chiara la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza derivanti da una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali), ma, soprattutto e ancor prima, per quello che più ci interessa ai fini del presente giudizio, rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione”.
“Né si può sminuire l’importanza e la potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale attraverso un artificioso frazionamento del medesimo, nel tentativo di valutare l’interesse transfrontaliero rispetto alle singole aree demaniali date in concessione. Una simile parcellizzazione, oltre a snaturare l’indiscutibile unitarietà del settore, si porrebbe in contrasto, peraltro, con le stesse previsioni legislative nazionali (che, quando hanno previsto le proroghe, lo hanno sempre fatto indistintamente e per tutti, non con riferimento alle singole concessioni all’esito di una valutazione caso per caso) e, soprattutto, darebbe luogo ad ingiustificabili ed apodittiche disparità di trattamento, consentendo solo per alcuni (e non per altri) la sopravvivenza del regime della proroga ex lege. Non vi è dubbio, al contrario, che le spiagge italiane (così come le aree lacuali e fluviali) per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentino tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo, il che implica che la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata si pone in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, in quanto è suscettibile di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, a maggior ragione in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere”.
Sull’applicabilità altresì dell’art. 12 della Direttiva Bolkenstein e sulle ragioni del rilevato contrasto della disciplina nazionale, anche in relazione alla “scarsità della risorsa naturale”.
Ad avviso della Plenaria, ad ogni modo, l’obbligo di evidenza pubblica nella materia in esame “discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva 2006/123, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo” (cfr. Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 103).
A tal proposito, la Plenaria si premura di “fugare”, punto per punto, i “principali argomenti contrari” e, più in generale, i “dubbi” da più parti sollevati, circa la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative “nel campo di applicazione della direttiva in questione” (v. punti 19 e ss.).
Ciò, in estrema sintesi osservando come:
- la direttiva 2006/123 deve essere considerata (non tato una direttiva di armonizzazione, bensì) una direttiva di liberalizzazione, “nel senso che è tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso: «fissa disposizioni generali volte ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra i medesimi, al fine di contribuire alla realizzazione di un mercato interno dei servizi libero e concorrenziale» (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 104)”, trovando “base giuridica” nel Capo II e nel Capo IV del TFUE;
- anche per questo, a nulla rileva l’assenza di una competenza dell’Unione europea ad adottare misure di armonizzazione in materia di turismo (alla luce dell’art. 195 TFUE), dovendosi inoltre considerare come l’art. 12 della direttiva 2006/123, “nella misura in cui pretende una procedura di gara trasparente ed imparziale per il rilascio di autorizzazioni in caso di scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, è norma volta a disciplinare il mercato interno in termini generali, applicandosi quindi a tutti i settori salvo quelli esclusi dall’ambito di applicabilità della medesima direttiva”;
- del resto, “la portata conformativa dell’art. 12 della direttiva 2006/123 sulle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa non si riverbera in modo diretto sulla politica nazionale in materia di turismo: il rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare), la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva”;
- la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, “materia trasversale”, “che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di «sostegno»: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia” (“altrimenti”, osserva ancora la Plenaria, “si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati”, come ad esempio nei settori della sanità pubblica, istruzione, cultura e protezione civile, “tutti settori rispetto ai quali i contratti pubblici sono sottoposti all’obbligo di gara”);
- privo di pregio è poi l’argomento volto a contestare la qualificazione delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa in termini di “autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2006/123”, sul rilievo per cui “la concessione attribuisce il bene (rectius, il diritto di sfruttarlo), ma non autorizza l’esercizio dell’attività e che le attività svolte dal concessionario non sono sempre attività di servizi”: “tale impostazione”, chiosa la Plenaria, risulta “meramente formalistica, perché valorizza la distinzione, propria del diritto nazionale, tra concessione di beni (come atto con effetti costitutivi/traslativi che attribuisce un diritto nuovo su un’area demaniale) e autorizzazione di attività (come atto che si limita a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente)”. Ma “questa distinzione, di stampo giuridico-formale, deve essere rivisitata nell’ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’Unione, che da tempo, proprio in materia di concessioni amministrative, ha dato impulso ad un processo di rilettura dell’istituto in chiave sostanzialistica, attenta, più che ai profili giuridico-formali, all’effetto economico del provvedimento di concessione, il quale, nella misura in cui si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie che, a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi. Dall’art. 4, punto 1, della direttiva 2006/123 risulta che per «servizio», ai fini di tale direttiva, si intende qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione. In particolare, “un’attività di locazione di un bene immobile […], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale, rientra nella nozione di «servizio», ai sensi dell’articolo 4, punto 1, della direttiva 2006/123” (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C-724/2018 e C-727/2018, punto 34)” (v. anche decisione della Commissione 4 dicembre 2020 relativa al regime di aiuti SA. 38399 2019/C (ex 2018/E) Tassazione dei porti in Italia). Essendo allora “evidente che il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara”;
- non depone in senso contrario neanche la tesi della valorizzazione della mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale: il concetto di scarsità va, invero, “interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della «quantità» del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso viene immesso sul mercato”; dovendosi sul punto ancora considerare “la concreta disponibilità di aree ulteriori rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione. È sulle aree potenzialmente ancora concedibili (oltre che su quelle già assentite), infatti, che si deve principalmente concentrare l’attenzione per verificare se l’attuale regime di proroga fino al 31 dicembre 2033 possa creare una barriera all’ingresso di nuovi operatori, in contrasto con gli obiettivi di liberalizzazione perseguiti dalla direttiva. La valutazione della scarsità della risorsa naturale, invero, dipende essenzialmente dall’esistenza di aree disponibili sufficienti a permettere lo svolgimento della prestazione di servizi anche ad operatori economici diversi da quelli attualmente «protetti» dalla proroga ex lege”;
- non ha pregio infine neanche la tesi volta a sostenere che la disposizione in questione non potrebbe considerarsi self-executing, perché in tesi “non sufficientemente dettagliata o specifica”: “il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considerare self-executing dipende, invero, dal risultato che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare tale risultato. Da questo punto di vista, l’art. 12 della direttiva persegue l’obiettivo di aprire il mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse, sostituendo, ad un sistema in cui tali risorse vengono assegnate in maniera automatica e generalizzata a chi è già titolare di antiche concessioni, un regime di evidenza pubblica che assicuri la par condicio fa i soggetti potenzialmente interessati. Rispetto a tale obiettivo, la disposizione ha un livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad imporre, di conseguenza, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità” (pur restando auspicabile un intervento legislativo in materia).
Alla luce di tali considerazioni, quindi, la Plenaria ha ritenuto “che anche l’art. 12 della direttiva 2006/123 sia applicabile al rilascio e al rinnovo delle concessioni demaniali marittime, con conseguente incompatibilità comunitaria, anche sotto tale profilo, della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata delle concessioni già rilasciate”.
Ciò, ulteriormente aggiungendo come il confronto competitivo, oltre ad essere imposto dal diritto dell’Unione, risulti – per un verso – “coerente con l’evoluzione della normativa interna sull’evidenza pubblica, che individua in tale metodo non solo lo strumento più efficace per la scelta del miglior “contraente” (in tal caso, concessionario), cioè del miglior interlocutore della pubblica amministrazione, ma anche come mezzo per garantire trasparenza alle scelte amministrative e apertura del settore dei servizi al di là di barriere all’accesso”; ed inoltre “estremamente prezioso per garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza, potendo contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita”.
Tali considerazioni peraltro, sono bastate alla Plenaria per riscontrare, altresì, la anticomunitarietà della moratoria emergenziale prevista dall’art. 182, co. 2, d.l. 34/2020 (oggetto del terzo quesito).
Essa invero, “presenta profili di incompatibilità comunitaria del tutto analoghi a quelli fino ad ora evidenziati”: “non è, infatti, seriamente sostenibile che la proroga delle concessioni sia funzionale al «contenimento delle conseguenze economiche prodotte dall’emergenza epidemiologica»”, deponendo in senso contrario quanto evidenziato dalla Commissione nell’ultima lettera di costituzione in mora (che riguarda anche l’art. 182, co. 2, d.l. 34/2020), laddove si afferma che “la reiterata proroga della durata delle concessioni balneari prevista dalla legislazione italiana scoraggia […] gli investimenti in un settore chiave per l’economia italiana e che sta già risentendo in maniera acuta dell’impatto della pandemia da COVID-19. Scoraggiando gli investimenti nei servizi ricreativi e di turismo balneare, l’attuale legislazione italiana impedisce, piuttosto che incoraggiare, la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano. La modernizzazione è ulteriormente ostacolata dal fatto che la legislazione italiana rende di fatto impossibile l’ingresso sul mercato di nuovi ed innovatori fornitori di servizi”.
“Non vi è quindi alcuna ragionevole connessione tra la proroga delle concessioni e le conseguenze economiche derivanti dalla pandemia, presentandosi semmai essa come disfunzionale rispetto all’obiettivo dichiarato e di fatto diretta a garantire posizioni acquisite nel tempo”.
Le risposte dell’Adunanza Plenaria al primo quesito di diritto, relativo alla disapplicabilità delle disposizioni interne (nazionali o regionali) che prevedono proroghe automatiche e generalizzate.
Così appurata l’incompatibilità comunitaria (per contrasto sia con gli artt. 49 e 56 TFUE sia con l’art. 12 della direttiva 2016/123) della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege delle concessioni demaniali già rilasciate (art. 1, commi 682 e 683 della l. 145/2018 e art. 182, comma 2, d.l. 34/2020), la Plenaria affronta il primo quesito oggetto del decreto presidenziale di rimessione, affermando come l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing.
Richiamando l’ormai consolidata giurisprudenza in materia (Corte di Giustizia, 22 giugno 1989, C-103/88, Fratelli Costanzo; Corte costituzionale sentenza n. 389 del 1989; Consiglio di Stato, Sez. V 6 aprile 1991, n. 452), la Plenaria ha quindi confermato che tutti i soggetti dell’ordinamento, compresi gli organi amministrativi, devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante le norme comunitarie, se del caso, non applicando – ovvero appunto, disapplicando – le norme nazionali contrastanti.
“Opinare diversamente”, chiosa la Plenaria, “significherebbe autorizzare la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto”.
Tali conclusioni, si aggiunge, valgono anche per il caso in cui venga in rilievo una direttiva self-executing (ritenendosi suggestivo ma non condivisibile il ragionamento contenuto in una delle due sentenze oggetto delle vertenze – quella del T.a.r. Lecce – che faceva leva sulla distinzione tra regolamenti comunitari e direttive, ordinariamente non self-executing).
Sul punto, al di là del fatto – ritenuto in sé dirimente dalla Plenaria – che la direttiva Bolkenstein 2006/123 ha di certo carattere self-executing (come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza Promoimpresa e da copiosa giurisprudenza nazionale successiva), si è in particolare osservato come “la prospettata distinzione, nell’ambito delle norme U.E. direttamente applicabili, fra i regolamenti, da un lato, e le direttive self-executing, dall’altro – al fine di ritenere solo le prime e non le seconde in grado di produrre l’obbligo di non applicazione in capo alla P.A. – si tradurrebbe nel parziale disconoscimento del c.d. effetto utile delle stesse direttive autoesecutive e nella artificiosa creazione di un’inedita categoria di norme U.E. direttamente applicabili (nei rapporti verticali) solo da parte del giudice e non della P.A. Di tale limitazione non vi è traccia nella giurisprudenza comunitaria, la quale, anzi, è da tempo orientata verso una progressiva valorizzazione dell’effetto diretto della direttiva self-executing (cui si riconosce una crescente incidenza anche nella disciplina dei rapporti orizzontali)”.
Ciò osservandosi ancora come “la tesi della non disapplicabilità da parte della P.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cade in una contraddizione logica, che finisce per sterilizzarne ogni utilità pratica”: “anche ad ammettere che la legge in contrasto con la direttiva self-executing non sia disapplicabile dalla P.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anticomunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato. E allora, nel momento in cui la P.A. ha comunque deciso di «non applicare» quella legge (nel caso di specie, negando la proroga) e il privato ha sottoposto al vaglio giurisdizionale l’atto amministrativo frutto di quella non applicazione, il giudice, che certamente ha il potere di non applicazione, non potrebbe che prendere atto della legittimità dell’atto e respingere il ricorso. Altrimenti si dovrebbe ritenere che nemmeno il giudice può disapplicare la legge che la P.A. ha applicato, con chiara violazione di consolidati principi sui rapporti tra ordinamenti nazionale e comunitario”.
Sicchè, resta fermo che “la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione”; e ciò, senza che sia necessario sollevare (come chiarito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 170/1984) una questione di legittimità costituzionale, invero oggi possibile solo in caso di contrasto fra legge nazionale e direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, “nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cfr., in particolare, Corte Cost., sentenze n. 289/2017, n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019)”.
Nessuna delle due “eccezioni” ricorre, ad avviso della Plenaria, nel caso di specie, “perché le norme comunitarie violate sono self-executing e non vengono in rilievo diritti fondamentali della persona costituzionalmente protetti”.
Né depongono in senso contrario “il rischio correlato alle possibili ripercussioni che una simile non applicazione potrebbe generare in termini di responsabilità penale dei concessionari demaniali” (giacchè l’operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può produrre effetti penali diretti in malam partem”) o le esigenze correlate alla tutela dell’affidamento degli attuali concessionari.
Dovendosi considerare, sotto tale profilo, anzitutto, come “l’affidamento del concessionario dovrebbe trovare tutela (come chiarito da Corte di giustizia e anche dalla Corte costituzionale) non attraverso la proroga automatica, ma al momento di fissare le regole per la procedura di gara (par. 3 dell’art. 12 della direttiva e sentenza Promoimpresa par. 52-56)”; ed in ogni caso che – come pure ricorda la lettera di messa in mora della Commissione europea del 03.1202020 – “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. In secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili” (cfr. Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09).
“Tali condizioni”, rileva la Plenaria, “non sussistono nella materia in esame”, specie se si considerano le plurime ed univoche prese di posizione, anche antecedenti alla direttiva Bolkenstein 2006/123, a favore della sottoposizione ai principi della concorrenza, dell’evidenza pubblica e della par condicio pure nel caso di assegnazione di beni/concessioni demaniali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.01.2005, n. 168, e sez. V, 31.05.2007, n. 2825; procedura di infrazione UE n. 2008/4908 e lettera di messa in mora inviata all’Italia il 29.01.2009, dietro segnalazione AGCM n.AS481 del 20.10.2008 e poi chiusa nel 2012, confidando sul riordino del settore preannunziato all’art. 11 d.l. 194/2009, conv. in l. 25/2010; Corte costituzionale, sentenze 180/2010, 340/2010 e 213/2011).
Le risposte dell’Adunanza Plenaria al secondo quesito di diritto, relativo alla obbligatorietà (o meno) dell’annullamento d’ufficio (o del riesame) del provvedimento emanato in contrasto con la normativa unionale, anche nei casi di eventuale giudicato favorevole.
La risposta al secondo quesito di diritto sollevato, prende le mosse – ai parr. 39 e ss. delle due decisioni – dal principio di primazia del diritto U.E..
Tale principio, secondo la stessa giurisprudenza comunitaria, “di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi. In linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato” [cfr. sentenze Khune (C-453/04) e Kempter (C-2/06), in cui la Corte UE, “pur escludendo la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame, individua alcune condizioni in presenza delle quali tale obbligo sussiste, anche in presenza di giudicato che abbia escluso l’illegittimità del provvedimento medesimo”. Ciò che si verifica allorquando: (a) l’amministrazione disponga secondo il diritto nazionale del potere di riesame; (b) l’atto amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza; (c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla medesima, risulti fondata su una interpretazione errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale].
La Plenaria, con le due decisioni in rassegna, rappresenta di condividere e ribadire tali principi, pur ritenendoli “non applicabili” al caso di specie, “dove, a ben guardare, non si pone propriamente una questione di autotutela amministrativa su provvedimenti amministrativi”.
Ciò in quanto l’atto di rinnovo di proroga, richiesto o eventualmente già adottato, va qualificato come “atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile (così la sentenza Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2019 n. 7874)”.
La formulazione letterale dell’art. 1, comma 682, della legge 418/2018, invero, “non lascia spazio a dubbi”: la “proroga del termine” avviene “automaticamente, in via generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione di alcun potere amministrativo. Si tratta, in buona sostanza, di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e «legifica», prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate. Ed invero, se una legge proroga la durata di un provvedimento amministrativo, quel contenuto continua ad essere vigente in forza e per effetto della legge e, quindi, assurge necessariamente a fonte regolatrice del rapporto rispetto al quale l’atto amministrativo che (eventualmente) intervenga ha natura meramente ricognitiva dell’effetto prodotto dalla norma legislativa di rango primario. Si è verificata, quindi, e in mancanza di una riserva di amministrazione costituzionalmente garantita, una novazione sostanziale della fonte di regolazione del rapporto, che ora trova appunto la sua base, in particolare per ciò che concerne la durata del rapporto, nella legge e non più nel provvedimento (mutatis mutandis, con riferimento alla questione della legificazione dei d.P.C.M. adottati per contenere l’emergenza epidemiologica da Covid-19, la cui durata è stata prorogata ex lege dai decreti-legge n. 44/2021 e n. 52/2021, cfr. Cons. Stato, sez. III, ord. 29 marzo 2021, n. 1606).
Di talchè, continua la Plenaria, “se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione”, ne discende – anzitutto – che “l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si fosse mai prodotto”.
Ed in secondo luogo e per conseguenza, che l’Amministrazione in tali casi non andrà ad esercitare, sugli atti eventualmente già adottati, alcun vero e proprio potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano), avendo il Legislatore avocato a sé il potere di regolamentazione del relativo rapporto di diritto pubblico (e l’interesse pubblico ad esso sotteso): “in altre parole, il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge”.
Ciò aggiungendosi come, se il provvedimento amministrativo (ricognitivo) della proroga “è funzionale a rappresentare il verificarsi di un fatto (la proroga) con un grado di certezza che consente alla collettività di fare affidamento su di esso al fine di rendere sollecito e affidabile il traffico economico e giuridico”, analoghe ragioni di certezza “depongono nel senso che l’Amministrazione provveda, comunque, a rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarla al soggetto cui è stato rilasciato detto atto”.
Tanto, peraltro, vale anche laddove sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale.
“Da questo punto di vista”, continua la Plenaria, è pur vero che – “in applicazione dei principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata, diventati essi stessi princìpi non solo degli Stati membri ma anche del diritto dell’Unione” – vada riaffermata l’importanza, anche per l’ordinamento giuridico comunitario, del principio dell’autorità di cosa giudicata; con la conseguenza che, come affermato ripetutamente dalla stesa Corte di giustizia, “il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di non applicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione (v. ex plurimis, sentenza 11 settembre 2019, causa C-676/17, con ulteriori richiami; Corte giust., 16 marzo 2006, causa C-234/04; 1° giugno 1999, causa C-126/97; in termini cfr. anche Ad. Plen. n. 6/2021 e Cass. civ., Sez. 5, 27 gennaio 2017, n. 2046)”.
Tuttavia, nel caso di specie, tali principi vanno adeguati, “tenendo conto che il giudicato incide su un rapporto di durata (qual è appunto quello che deriva dal rilascio o dal rinnovo della concessione demaniale). Sotto tale profilo, va, infatti, ricordato, che, come affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 11 del 2016, le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate: la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, dunque, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto. La sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di giustizia è, quindi, equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato (come accade quando viene in considerazione un rapporto di durata) determina non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica”.
Sicchè, allorchè venga in rilievo come nel caso di specie, un rapporto di durata, “per quella parte di rapporto non coperta dal giudicato, non vi sono ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione comunitaria (con le conseguenze di cui infra)”.
In conclusione, pertanto, “l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali produce come effetto, anche nei casi in cui siano stati adottati formali atti di proroga e nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole, il venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non applicazione della disciplina interna”.
Sulla modulazione temporale degli effetti della decisione e sulle indicazioni fornite, anche de jure condendo, al Legislatore ed alle Pubbliche Amministrazioni.
Consapevole dell’incertezza che già connota lo stratificato quadro normativo di riferimento e del “notevole impatto (anche sociale ed economico)” che avrebbero di certo avuto le proprie decisioni e la soluzione ivi accolta, ove mai immediatamente operativa, la Plenaria – come accennato in premessa – ha ritenuto di applicare principi analoghi a quelli già espressi nella sentenza n. 13 del 2017, in tema di modulazione degli effetti temporali del decisum.
E ciò, con una “deroga alla retroattività” che trova fondamento nel “principio di certezza del diritto”, giacchè si perviene, per tale via, a limitare “la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata”, in presenza di un “rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni (in tal senso, ma con riferimento all’ordinamento comunitario, Corte di giustizia, 15 marzo 2005, in C-209/03)”.
“Nel caso di specie”, rileva ancora la Plenaria, una graduazione degli effetti delle decisioni assunte è peraltro resa necessaria dalla constatazione che “la regola in base alla quale le concessioni balneari debbono essere affidate in seguito a procedura pubblica e imparziale richiede di prevedere un intervallo di tempo necessario per svolgere la competizione, nell’ambito del quale i rapporti concessori continueranno a essere regolati dalla concessione già rilasciata”.
“Detto periodo deve essere congruo rispetto all’esigenza funzionale di espletare le gare e di evitare il significativo impatto economico e sociale che altrimenti deriverebbe dall’improvvisa decadenza dei rapporti concessori in essere. Al tempo stesso, il lasso temporale non può essere elusivo dell’obbligo di adeguamento della realtà nazionale all’ordinamento comunitario”, potendo peraltro consentire “a Governo e Parlamento di approvare doverosamente una normativa che possa finalmente riordinare la materia e disciplinare in conformità con l’ordinamento comunitario il sistema di rilascio delle concessioni demaniali”, con l’ulteriore precisazione che è precipuo “compito del legislatore farsi carico di una disciplina che, nel rispetto dei principi dell’ordinamento dell’Unione e degli opposti interessi, sia in grado di contemperare le ormai ineludibili istanze di tutela della concorrenza e del mercato con l’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti”.
A fronte di ciò, l’Adunanza Plenaria, “consapevole della portata nomofilattica della presente decisione, della necessità di assicurare alle amministrazioni un ragionevole lasso di tempo per intraprendere sin d’ora le operazioni funzionali all’indizione di procedure di gara, nonché degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori”, ha ritenuto che “tale intervallo temporale per l’operatività degli effetti della presente decisione possa essere congruamente individuato al 31 dicembre 2023”.
Il tutto, fornendosi delle ulteriori e quanto mai dettagliate precisazioni che valgono anche ad integrare un vero e proprio vademecum di tutto quanto potrà e dovrà, anche de jure condendo, disporsi entro la data indicata:
- “scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se via sia – o meno – un soggetto subentrante nella concessione”.
- “eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni altra disciplina comunque diretta ad eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere”;
- “in ordine ai principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare, ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’approntare la normativa di riordino del settore, può ricordarsi che l’art. 12 della direttiva 2006/123 già contiene importanti criteri in grado di veicolare la discrezionalità del legislatore, imponendo, appunto, una “procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, ma precisando anche che, “nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”, con l’ulteriore aggiunta che “nel considerare tali ultime prerogative possono essere apprezzati e valorizzati in sede di gara profili di politica sociale e del lavoro e di tutela ambientale”.
- con riferimento al legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, funzionale ad ammortizzare gli investimenti da loro effettuati, la Corte di giustizia ha constatato che “gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a «motivi imperativi d’interesse generale», precisando che si possa tenere conto di tali considerazioni «solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva» e che comunque necessiti al riguardo «una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti» (sentenza Promoimpresa). La Corte di giustizia ha del resto rinvenuto detta situazione rispetto a una concessione attribuita nel 1984, «quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza», esigendo che «la risoluzione di siffatta concessione sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare, dal punto di vista economico» (sentenza Promoimpresa). L’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi”.
- benchè “i criteri dettati dall’art. 12 della direttiva 2006/123 non impongono il rispetto del principio di rotazione (dettati in relazione al diverso settore dei contratti pubblici disciplinati dalle direttive del 2014, le nn. 23, 24 e 25), nondimeno, nel conferimento o nel rinnovo delle concessioni, andrebbero evitate ipotesi di preferenza «automatica» per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato (circostanza che potrebbe verificarsi anche nell’ipotesi in cui le regole di gara consentano di tenere in considerazione gli investimenti effettuati senza considerare il parametro di efficienza quale presupposto di apprezzabilità dei medesimi)”;
- la scelta di criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi sarà essenziale per garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni: “a tal fine i criteri di selezione dovrebbero dunque riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essere collegati all’oggetto del contratto e figurare nei documenti di gara. Nell’ambito della valutazione della capacità tecnica e professionale potranno, tuttavia, essere individuati criteri che, nel rispetto della par condicio, consentano anche di valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri), anche tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale; anche tale valorizzazione, peraltro, non potrà tradursi in una sorta di sostanziale preclusione all’accesso al settore di nuovi operatori” e “ulteriori elementi di valutazione dell’offerta potranno riguardare gli standard qualitativi dei servizi (da incrementare rispetto ad eventuali minimi previsti) e sostenibilità sociale e ambientale del piano degli investimenti, in relazione alla tipologia della concessione da gestire”.
- la durata delle concessioni dovrebbe essere limitata e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, al fine di evitare la preclusione dell’accesso al mercato: “al riguardo, sarebbe opportuna l’introduzione a livello normativo di un limite alla durata delle concessioni, che dovrà essere poi in concreto determinata (nell’ambito del tetto normativo) dall’amministrazione aggiudicatrice nel bando di gara in funzione dei servizi richiesti al concessionario. La durata andrebbe commisurata al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa e non dovrebbe eccedere il periodo di tempo ragionevolmente necessario al recupero degli investimenti, insieme ad una remunerazione del capitale investito o, per converso, laddove ciò determini una durata eccessiva, si potrà prevedere una scadenza anticipata ponendo a base d’asta il valore, al momento della gara, degli investimenti già effettuati dal concessionario”;
- è inoltre auspicabile che le amministrazioni concedenti sfruttino appieno il reale valore del bene demaniale oggetto di concessione: “in tal senso, sarebbe opportuno che anche la misura dei canoni concessori formi oggetto della procedura competitiva per la selezione dei concessionari, in modo tale che, all’esito, essa rifletta il reale valore economico e turistico del bene oggetto di affidamento”;
- anche laddove sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale, può ritenersi che “gli effetti della non applicazione della normativa in esame si produrranno al termine del periodo transitorio sopra illustrato”, ovvero solo a far data dalla scadenza del periodo biennale di cui sopra, convergendo in tal senso: (i) le stesse ragioni di certezza che inducono a prevedere un periodo transitorio che preceda l’obbligo di non applicazione della disciplina legislativa interna in conflitto con il diritto UE; (ii) considerazioni concrete di applicabilità amministrativa del principio di diritto enunciato (che richiedono necessariamente di prevedere un intervallo per lo svolgimento delle gare); (iii) l’opportunità di consentire al legislatore di normare le procedure di affidamento delle concessioni balneari in conformità al diritto UE, considerato anche il ruolo nevralgico delle medesime nell’ambito dell’economia italiana; (iv) la necessità di evitare disparità di trattamento; (v) generali esigenze di semplificazione e linearità della disciplina pubblicistica.
I tre principi di diritto statuiti.
Alla luce delle superiori considerazioni, l’Adunanza plenaria – nel rimettere le vertenze ai Giudici d’Appello presso i quali erano incardinate, per le ulteriori statuizioni necessarie alla loro definizione – ha enunciato i seguenti principi di diritto:
1) “Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative – compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 – sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione”.
2) “Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto”.
3) “Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E”.