Consiglio di Stato: anche per i dehors possono essere necessari titolo edilizio e autorizzazione paesaggistica
La Seconda Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza del 13 febbraio 2023 numero 1489, si è pronunciata circa la corretta identificazione di alcuni interventi edilizi minori tipici delle strutture di ristorazione, in particolare approfondendo le caratteristiche necessarie alle pergotende, ai gazebo e alle tettoie (soprattutto ove utilizzati come dehors) per essere qualificati interventi di cd. “edilizia libera”, per cui non è necessario ottenere un titolo edilizio.
Il Collegio, riconoscendo la difficoltà, sia per il legislatore che per la giurisprudenza, di porre confini certi agli interventi ammissibili in tale regime sostanzialmente liberalizzato, ha posto l’accento sulle esigenze contingenti e temporanee che debbono caratterizzare la presenza di un dehors collegato ad una attività di ristorazione, che non esime comunque dall’ottenimento di una adeguata autorizzazione paesaggistica ove necessaria.
La vicenda e il giudizio di primo grado
Nella fattispecie esaminata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1489 del 13 febbraio 2023, una gelateria operante nel Comune di Ginosa ha realizzato un dehors su suolo pubblico in ampliamento all’attività commerciale, richiedendo poi la necessaria autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 del Dlgs. n. 42/2004 e ricevendo tuttavia un provvedimento di diniego.
La gelateria, ubicata in zona classificata “B4” soggetta a vincolo paesaggistico, ha dapprima realizzato un manufatto temporaneo – il cui mantenimento in loco non avrebbe dovuto superare i sei mesi l’anno, in ossequio al regolamento comunale applicabile – tentando successivamente di stabilizzarlo, modificandone anche la consistenza, in aumento.
Ricevuto un primo diniego, i titolari hanno presentato un’ulteriore S.C.I.A. al fine di ottenere la sanatoria, ex art. 37 del D.p.r. 380/2001, di quanto realizzato.
Il Comune di Ginosa ha rigettato l’istanza con il provvedimento poi impugnato in primo grado, preceduto da idoneo preavviso di diniego ex art. 10 bis della L. 241/90, richiamando per relationem il parere negativo espresso dalla Soprintendenza.
Impugnato il diniego dinnanzi il Tribunale Amministrativo Regionale di Lecce, la ricorrente ha ottenuto l’annullamento sul presupposto che la Soprintendenza si fosse tardivamente espressa rispetto al termine di 90 giorni previsto dall’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004, conseguentemente rendendo necessaria in capo al Comune una motivazione compiuta e autonoma del rigetto, non potendosi “appiattire sulle considerazioni dell’Amministrazione statale”.
Il giudizio di secondo grado: l’unico motivo di appello
Il Ministero della Cultura, già Ministero per i beni e le attività culturali, ha appellato dinnanzi il Consiglio di Stato tale sentenza, articolando un unico motivo di appello relativo al difetto di istruttoria e alla errata applicazione della normativa di riferimento.
Secondo la prospettazione dell’Amministrazione, l’installazione del dehors avrebbe necessitato ab origine di una autorizzazione paesaggistica, non potendo rientrare nelle fattispecie esonerate individuate tassativamente al punto A.16 dell’allegato A al d.P.R. n. 31/2017.
Il Ministero ha poi proseguito rilevando che, stante la permanenza oltre i limiti di tempo utili a considerare la struttura una contingenza stagionale, essa avrebbe comunque necessitato di sanatoria, nei fatti non concedibile poiché manufatto estraneo alle tipologie che la consentono (ex art. 167 del D.lgs n. 42/2004, dovrebbe trattarsi di struttura “leggera” e di facile amovibilità, non di una vera e propria estensione del locale stesso).
Tale inquadramento troverebbe conforto anche nel nuovo regolamento comunale disciplinante le occupazioni di aree pubbliche per spazi di ristoro all’aperto e dehors.
I chiarimenti sulla definizione di dehors in edilizia
Nel valutare il caso in sede di appello, il Consiglio di Stato ha innanzitutto ricordato la necessità di individuare un punto di incontro tra le esigenze di tutela paesaggistica e quelle di sviluppo economico, esigenza a cui il legislatore ha tentato di rispondere permettendo opere in deroga alla normativa ordinaria solo ove considerate stagionali.
Nel tentativo di definire il concetto di dehors poi, stante l’utilizzo spesso inopportuno, nei regolamenti comunali, di termini non italiani, il Consiglio di Stato ha ricordato che spesso si tratta di opere dalla consistenza variabile, a volte limitata ad una mera tenda e altre volte estesa sino a vere e proprie verande.
Al fine di verificare la loro sussumibilità al concetto di “edilizia libera” indicata all’art. 6, comma 1, lett. e-bis) del d.P.R. n. 380/2001, va ricordato che deve trattarsi di “opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale”.
Da una parte, dunque, vi è il criterio strutturale (la realizzazione con materiali e modalità tali da consentire la rapida rimozione), dall’altra il criterio funzionale (il rispondere ad esigenze contingenti e temporanee, con una durata massima di 180 giorni).
Tali caratteristiche, rileva il Consiglio di Stato, vengono inoltre confermate dalle definizioni di interventi paragonabili che sono contenute sia nel “Regolamento edilizio-tipo” approvato in sede di Intesa Stato-Regioni (pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016) che nel cd. “Glossario dell’edilizia libera” contenuto nel Decreto Ministeriale del 2 marzo 2018.
La ricostruzione normativa sulla autorizzazione paesaggistica
Il Consiglio di Stato ha pertanto proseguito chiarendo che, oltre al necessario titolo edilizio ove il dehors non sia caratterizzato da precarietà e contingenza, dal punto di vista della tutela del paesaggio è comunque necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, salvo l’esonero previsto per le opere di lieve entità dal d.P.R. n. 31 del 13 febbraio 2017.
In particolare, alla voce “A.16” dell’allegato A, tra gli “interventi liberi” figura l’occupazione temporanea anche di suolo pubblico o di uso pubblico «mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare».
L’art. 146 quindi, trova applicazione ogniqualvolta l’installazione travalichi, per durata o consistenza, i confini declinati dal d.P.R. n. 31 del 2017.
La norma è stata stemperata dal comma 4 dell’art. 167, che consente di sanare gli interventi minori espressamente individuati, comunque non applicabile al caso di specie.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in appello, ha ricordato che “la giurisprudenza amministrativa e penale ha da sempre tentato di chiarire, in maniera adeguata, i connotati dell’opera amovibile e temporanea, come tale non necessitante di titolo edilizio. Ancor prima dell’avvenuta introduzione della lettera e-bis nel comma 1 dell’art. 6 del T.u.e., oltre che al fattore tempo, si dava rilievo, piuttosto che all’aspetto strutturale dell’opera nella sua composizione materiale (ovvero unitamente allo stesso) a quello funzionale, che impone di valutare se il manufatto, pur costruito con impiego di materiali leggeri e non incardinato al suolo, sia o meno destinato ad un utilizzo temporaneo e per sopperire ad esigenze contingenti, dando rilievo non alla volontà dell’autore dell’opera, bensì alla sua fisiologica finalizzazione (al riguardo, v. Cons. Stato, sez. VI, 1 aprile 2016, n.1291, sulla vicenda delle roulottes o case mobili, ora disciplinate dall’art. 3, comma 1, lett.e.5, che codificando un principio di individuazione pretoria, “liberalizza” la relativa installazione al di fuori di strutture ricettive all’uopo autorizzate, solo ove il fabbricato sia destinato, appunto, a soddisfare esigenze meramente temporanee)”.
È proprio il venir meno di questa precarietà, intesa in una accezione ampia (temporale, funzionale e costruttiva), che concretizza l’abuso edilizio e implica una trasformazione permanente del territorio con aumento del carico urbanistico.
La stessa richiesta di sanatoria, non fa altro che confermare la preesistenza nel tempo di un fabbricato che, pertanto, non può essere né temporaneo né precario.
Non può allora essere condivisa la scelta operata dal giudice di prime cure, poiché si è trattato di una “semplificazione argomentativa […] non potendo la vicenda essere definita sul solo assunto del mancato rispetto delle scansioni procedimentali contenute negli artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, non a caso promiscuamente richiamati, a prescindere dal suo sotteso inquadramento fattuale e giuridico”.
In questo caso, l’installazione da parte della Società di un manufatto chiuso su tutti i lati, destinato a permanere per anni su suolo pubblico, travalicando da subito i limiti dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis, del T.u.e., avrebbe imposto il rilascio, oltre che di titolo edilizio, anche di autorizzazione paesaggistica.
Il Consiglio di Stato, infine, si spinge ancora più in la, ricordando che “l’art. 146 prevede che l’amministrazione competente, una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude (art. 146, comma 7)” e che dunque il Comune avrebbe potuto (e dovuto) rilevare immediatamente l’assoluta preclusione dell’intervento, arrestando il procedimento con un diniego, senza nemmeno coinvolgere la Soprintendenza.