Controllo giudiziario favorevole e poteri del Prefetto sull’aggiornamento dell’informativa antimafia
La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza del 16 giugno 2022 numero 4912, spiega per quale ragione (giuridica e di sistema) anche la conclusione favorevole del controllo giudiziario a domanda non osta alla possibilità che il Prefetto successivamente riconfermi la misura interdittiva antimafia originariamente emessa.
Il caso concreto
Una Società subisce un’interdittiva antimafia e chiede di essere sottoposta all’istituto “cautelare e bonificante” del controllo giudiziario, ai sensi dell’articolo 34-bis, comma 6 del decreto legislativo 6 settembre 2011 numero 159.
Atteso l’esito positivo del controllo, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Catanzaro non ritiene necessaria la proroga del predetto controllo e la Società chiede l’iscrizione nella white-list.
Tuttavia, la Prefettura di Catanzaro – aggiornando l’informativa ai sensi dell’articolo 86 comma 2 del succitato decreto – ritiene persistenti i rischi d’infiltrazione e riemette la misura interdittiva.
La Società – forte dell’esito favorevole del controllo giudiziario – propone ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria ed ottiene l’accoglimento.
Ricorrono in appello il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Catanzaro.
Le contrapposte posizioni in appello
Secondo le Amministrazioni appellanti, al termine del controllo giudiziario, spetta alla Prefettura e non al Giudice della prevenzione verificare se l’impresa ha effettivamente reciso i contatti con le organizzazioni criminali, non potendosi attribuire efficacia di giudicato vincolante all’accertamento del Giudice della prevenzione e considerato peraltro che, normalmente, la conoscenza di certi elementi informativi è nella sola disponibilità delle forze dell’ordine e non dei controllori giudiziari.
Secondo la Società appellata invece, una tale impostazione andrebbe a detrimento della funzione di cesura e garanzia propria del controllo giudiziario sino a determinarne l’inutilità, atteso che in ogni caso il provvedimento interdittivo non può essere sorretto dalla passiva, acritica e stereotipata ripetizione degli elementi ritenuti di rischio già considerati, ma deve essere sostenuto (anche) da ulteriori fattori di controindicazione che convincono della persistenza, concretezza e attualità del pericolo infiltrativo, nonostante il controllo giudiziario.
La decisione
Il Consiglio di Stato – ritenendo prevalenti e condividendo gli interessi sottesi alle argomentazioni delle appellanti e considerando ragionevole la prognosi di permanenza del rischio infiltrativo formulata dalla Prefettura alla luce del criterio del più probabile che non (tipico anche della prevenzione amministrativa) – accoglie il ricorso in appello, riforma la pronuncia del Giudice di prime cure e respinge il ricorso introduttivo di primo grado.
Orbene, tutto il percorso argomentativo che accompagna il ragionamento logico-giuridico sottostante la motivazione resa dal Giudice d’appello, nel solco del principio illuministico della separazione dei poteri, indaga, dapprima, la relazione generale fra l’informativa presupposta e il controllo giudiziario e, successivamente e in particolare, i rapporti fra esito favorevole del controllo giudiziario e valutazioni postume del Prefetto in sede di aggiornamento dell’informativa.
Sulla relazione fra l’informativa presupposta e il controllo giudiziario
A tal proposito, il Giudice d’appello richiama immediatamente un recente orientamento proprio della sua Terza Sezione, rammentando che “…pretendere di sindacare la legittimità del provvedimento prefettizio alla luce delle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da (probabili) infiltrazioni criminali, appare operazione doppiamente viziata: perché inevitabilmente diversi sono gli elementi (anche fattuali) considerati – anche sul piano diacronico – nelle due diverse sedi, ma soprattutto perché diversa è la prospettiva d’indagine, id est l’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata…”, chiosando che “…Non può pertanto sostenersi che la pronuncia del giudice della prevenzione penale produca un accertamento vincolante o condizionante sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata o che gli accertamenti (cfr. Cons. Stato Sez. III, 4 febbraio 2021 n. 1049)…”.
Senza mancare di ricordare, a suffragio della tesi testé richiamata, che – proprio in ordine al sistema delle relazioni fra prevenzione amministrativa e prevenzione penale antimafia in sede di controllo giudiziario – la stessa Corte di Cassazione chiarisce che “…vanno esclusi in capo al Tribunale di prevenzione, poteri di controllo dei presupposti della interdittiva antimafia, venendo altrimenti ad introdursi nel sistema una duplicazione del controllo sulla legittimità della misura interdittiva e segnatamente sulla sussistenza o meno dei presupposti (cfr. in tal senso Cass. Penale sentenza Sez. 6, del 9 maggio 2019, n. 26342)…”.
A tali evidenze perviene lo stesso Giudice d’appello proprio tenendo conto della tipologia e delle peculiarità del controllo giudiziario a domanda ex articolo 34-bis comma 6, specificando che “…A differenza di quanto previsto dall’art. 34 bis, comma 1 (controllo giudiziario d’ufficio), in relazione al quale «la valutazione del prerequisito del pericolo concreto di infiltrazioni mafiose, idonee a condizionare le attività economiche e le aziende, è riservata in via esclusiva al giudice della prevenzione – trattandosi di misura richiesta ad iniziativa pubblica in funzione di un controllo cd. prescrittivo – nel caso del comma 6 della medesima disposizione, la valutazione deve tener conto del provvedimento preventivo di natura amministrativa» e dunque non può prescindere «dall’accertamento di quello stesso prerequisito effettuato dall’organo amministrativo, substrato della decisione riservata alla cognizione del giudice ordinario, così da risultare preclusa la possibilità di negare addirittura la misura ove si ritenga inesistente, con gli standard probatori propri del giudizio penale di prevenzione, quello stesso pericolo di infiltrazione che, invece, l’organo amministrativo ha affermato, sia pure sulla base di un diverso parametro di giudizio, in dimensione prospettica, attraverso una lettura prognostica delle informazioni acquisite» (così Cass. 28 gennaio 2021, n. 9122)…”.
In tal modo, il Consiglio di Stato trova l’occasione per tracciare il confine fra le prerogative giurisdizionali del Giudice ordinario e quelle del Giudice speciale, osservando che “…il Giudice penale deve considerare l’informativa antimafia quale presupposto insindacabile del giudizio … il Giudice amministrativo deve considerare il controllo giudiziario quale parentesi che dinamicamente tende all’emenda dell’imprenditore, e che non refluisce sul sindacato statico sull’informativa a suo tempo emessa, da esercitare alla luce del quadro istruttorio al tempo fotografato e vagliato dal Prefetto…”.
Sulla relazione fra esito favorevole del controllo giudiziario e valutazioni postume del Prefetto in sede di aggiornamento dell’informativa
In detto ambito, poi, il Consiglio di Stato riflette sulla ratio del controllo giudiziario, edotto del fatto che “…secondo il legislatore tale attività dovrebbe avere non solo un effetto cautelarmente protettivo (sospendere gli effetti potenzialmente esiziali dell’informativa), ma anche e soprattutto bonificante, grazie ad un monitoraggio giudiziario idoneo a disinnescare, pro futuro, gli “occasionali” rischi infiltrativi appalesatesi alla lente del Prefetto…”.
Per tale ragione, il Consiglio di Stato sottolinea che qualora il Prefetto ignorasse la funzione bonificante del controllo giudiziario tradirebbe il dato normativo e peccherebbe di eccesso di potere.
Con altrettanta prudenza, tuttavia, rivela che “…Ciò non vuol dire che dal controllo giudiziario derivi un vincolo alle valutazioni postume del Prefetto, alla luce di una presunzione assoluta di avvenuta bonifica…”.
In particolare, osservando che se “…È pur vero che il controllo giudiziario è idoneo a creare un ambiente di impresa e di relazioni commerciali “garantito”, caratterizzato dal controllo analitico dell’amministratore sugli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati e ricevuti, sugli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria, nonché dall’imposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire o a diminuire il rischio infiltrativo ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231…”, non sarebbe da considerarsi remota la possibilità di “…vicende non facilmente intercettabili dall’amministratore giudiziario in quanto destinate a muoversi sul piano dei rapporti personali dell’imprenditore e degli ambienti familiari e sociali nel quale egli opera e che, viceversa, più agevolmente si prestano ad essere vagliate nel quadro di indagini penali o di controlli di polizia che ne disvelino la loro vera natura sostanziale, al di là degli schermi formali prescelti…”.
Difatti, secondo la Terza Sezione “…Le favorevoli conclusioni dell’amministratore giudiziario, e la conseguente chiusura del controllo giudiziario non sono dunque assimilabili ad un giudicato di accertamento. Esse si prestano ad uno screening e ad una valutazione ulteriore, sempre che essa sia argomentata e supportata da riscontri e considerazioni che basano su risultanze istruttorie, e sia sorretta da idonea motivazione dalla quale possano ricavarsi i processi logico deduttivi che l’hanno determinata…”.
Ancora, “…Mentre il controllo giudiziario è parentesi cautelare ed emendativa che consegue ad un accertamento amministrativo che si ritiene presupposto e non sindacabile – ed è dunque tutto incentrato su una prognosi che guarda al futuro affrancamento dai rischi che seppur occasionalmente in passato hanno condizionato l’imprenditore – l’informativa (anche quella eventualmente successiva al controllo giudiziario) è invece frutto di una visione ampia che ingloba anche la storia dell’imprenditore, i suoi legami passati e le pregresse vicende, nei limiti in cui esse siano ancora significative e portatrici di un potenziale pregiudicante ancora provvisto di riverberi attualità. Ciò consente al Prefetto di giustificare le sue valutazioni, utilizzando, seppur per meglio inquadrare e qualificare le sopravvenienze, lo sfondo in cui le vicende sono maturate e la storia in cui esse si innestano…”.
In definitiva, “…Deve in particolare escludersi che il controllo giudiziario sia in grado di cancellare gli eventi che in passato hanno dato sostanza al rischio infiltrativo, in guisa da assumere oltre ad una funzione cautelare e bonificante, anche una funzione riabilitante, poiché così ragionando si andrebbe oltre la volontà del legislatore, sino a costruire una sistema di prevenzione penale/amministrativa in cui l’informativa assume il ruolo di condizione di procedibilità del controllo giudiziario a domanda, e quest’ultimo quello di un percorso che esenta l’imprenditore da qualsivoglia effetto interdittivo nei rapporti con la Pubblica amministrazione (dapprima in sede cautelare e poi in forza dell’effetto riabilitante)…”.
L’esito cui è pervenuto il Collegio
Con la pronuncia in rassegna, la Terza Sezione conclude logicamente che “…a valle del controllo giudiziario il Prefetto ben possa individuare episodi, comportamenti, relazioni che depongono per la permanenza del rischio infiltrativo, anche ove essi si siano verificati durante la fase giudiziaria monitorata, purché ne dia compiuta e concludente evidenza in sede motivazionale e non manchi di ponderandoli con il percorso compiuto dall’imprenditore in costanza del controllo giudiziario, da valutare anche alla luce della storia del medesimo e delle ragioni del primigenio sorgere del rischio infiltrativo…”.
Sullo sfondo, tuttavia, pur condividendo l’esito d’un tale orientamento giurisprudenziale, sembra confermarsi che (nel metodo) tanto la prevenzione amministrativa quanto quella penale (quando consistenti in una tutela dell’interesse pubblico e del bene giuridico ampiamente anticipata) non lasciano spazio a quei principi liberali e di garanzia propri dello Stato Costituzionale di Diritto.