La disciplina nazionale sugli affidamenti in house rimessa al vaglio della CGUE

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con tre ordinanze “gemelle” pubblicate il 7 gennaio 2019 col n. 138 ed il 14 gennaio 2019 col n. 293 e col n.296, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, due distinti quesiti interpretativi vertenti sulla disciplina nazionale in materia di società ed affidamenti in house, recata dal Codice dei contratti pubblici e dal Testo Unico delle Società Partecipate, chiedendo alla Corte di Giustizia di chiarire:

  • se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici’ – decreto legislativo n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento; e
  • se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate – decreto legislativo n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato.
  1. SUL PRIMO QUESITO INTERPRETATIVO.

Il primo quesito interpretativo sollevato dalla Sezione verte, come osservato, sull’articolo 192 (Regime speciale degli affidamenti in house), comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016, c.d. Codice dei contratti  pubblici, la cui violazione era stata lamentata da parte ricorrente, poi appellante, secondo il quale, ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti devono effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e “dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
La Sezione, rilevato che in effetti gli atti impugnati in primo grado (istitutivi dell’affidamento in house) appaiono prima facie non coerenti con le previsioni dell’articolo 192, comma 2, del Codice  “..in quanto non espongono adeguatamente le ragioni per cui si fa ricorso all’affidamento in house (mezzo da ritenere ormai, per il diritto italiano, derogatorio rispetto all’ordinario affidamento con procedure ad evidenza pubblica)…”, ha precisato di dubitare “…che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea…”.
In particolare, osserva la Sezione ai fini del rinvio pregiudiziale sul primo quesito, “… l’articolo 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato (come riguardati dalla presente controversia) sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):
i) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe;
ii) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento – con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto -). Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese…”.
Un tale restrittivo orientamento espresso dal Legislatore del 2016, osserva ancora la Sezione, si colloca peraltro “…in continuità con orientamenti analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (i.e.: sin dall’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008)…”, essendo stato oggetto anche di plurime pronunzie della Corte Costituzionale (cfr. in particolare, sentenza del 17 novembre 2010, n. 325, in cui la Corte costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere “limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie”, per restringere ulteriormente le eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo inderogabile; ed ancora sentenza del 20 marzo 2013, n. 46, secondo cui l’affidamento in regìme di delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica”).
In un tale contesto, quindi, ad avviso della Sezione occorre verificare se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall’articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione).
E ciò, rammentandosi come in tema di acquisizione dei servizi di interesse degli organismi pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui contestuale applicazione può comportare antinomie:  a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che vincoli di particolare modalità gestionale derivanti dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.: regime di affidamento con gara) rispetto a un’altra (ad es.: regime di internalizzazione ed autoproduzione); b) dall’altro, il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Principio sub b) che, ad avviso della Sezione, “..sembra presentare una valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia, rispetto al principio della libertà nella scelta del modello gestionale)…”, in quanto “…la prima scelta che viene demandata alle amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato…”.
Di talchè, “se si considera che l’in house providing è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e autoproduzione, risulta che lo stesso in house providing rappresenta non un’eccezione residuale, ma una normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo, che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza…”.
Insomma” – continua la Sezione – “.. da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti in house (sostanziale forma di autoproduzione) non sembrano posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti con gara; al contrario, sembrano rappresentare una sorte di prius logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o esternalizzazione dei servizi di proprio interesse. In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo…”.
Né l’ordinamento comunitario pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione (cfr. in particolare, CGUE – Grande Sezione sentenza del 9 giugno 2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo della Germania federale, in cui si è chiarito che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche”; CGUE – Terza Sezione sentenza del 13 novembre 2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant; Comunicazione interpretativa sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati – PPPi (documento C(2007)6661 del 5 febbraio 2008 della Commissione europea; articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE, rubricato ‘Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche’; Considerando 5 della Direttiva 2014/24/UE, secondo cui “… nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva …”).
Si pone a questo punto, ad avviso della Sezione, la questione della conformità fra:
– da un lato, “.. i richiamati princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non addirittura la prevalenza logica del sistema di autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione)..” e
– dall’altro, “.. le previsioni del diritto nazionale italiano (in particolare, il comma 2 dell’articolo 192 del Codice degli appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli affidamenti in house in una posizione subordinata e subvalente e – come detto – li ammettono soltanto in caso di dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale forma di gestione. Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per superare questa presunzione occorre dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento…”.
Previsioni e condizioni restrittive che, osserva ancora il Collegio “…potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta priorità sistematica al principio di mesa in concorrenza rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così non pare essere…”.
Da ciò, dunque, il primo quesito interpretativo sopra riportato.

  1. SUL SECONDO QUESITO INTERPRETATIVO.

La seconda questione sottoposta dalla Sezione alla Corte di giustizia dell’UE è invece connessa alla previsione contenuta all’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate (norma secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”), involgendo i vincoli posti dall’ordinamento interno alla partecipazione al capitale sociale da parte di soggetti pubblici che non esercitino il controllo analogo sulla società in house.
Al riguardo, il Collegio ha dapprima precisato in punto di fatto come lo statuto della società in house affidataria in via diretta del servizio di igiene urbana ed oggetto di ricorso, prevede due diverse categorie di soci (amministrazioni pubbliche): i c.d. ‘soci affidanti’ (che esercitano il controllo analogo sulla società in house e che possono conseguentemente operare affidamenti diretti in suo favore) ed i c.d. ‘soci non affidanti’ (che non esercitano un tale controllo analogo e non possono quindi operare affidamenti diretti in favore della società in house, configurandosi come “soci di mero conferimento di capitale”).
Quindi, ha osservato come, dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, “.. non sembrano emergere impedimenti a un tale particolare assetto societario…”.
Ed infatti “..se il diritto dell’UE (articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE) ammette che l’in house a controllo analogo congiunto sia possibile anche quando il capitale dell’organismo sia aperto alla partecipazione di capitali privati (purché non comporti loro controllo o potere di veto), non emergono ragioni per escludere che l’in house a controllo analogo congiunto possa sussistere anche nel caso di partecipazione di capitale di amministrazioni pubbliche (purché non esercitino controllo o poteri di veto e non effettuino affidamenti diretti).
Quindi, il particolarissimo schema della partecipazione societaria in *** (che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche) non sembra in contrasto con il diritto comunitario…”.
Sennonchè, ad avviso della Sezione, un tale schema sembra sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE.
In particolare, l’articolo 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate, il quale “…appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali…”, sembra escludere la possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’ decida in un secondo momento di acquisire il controllo analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto del servizio in favore della società in house (opzione questa che per la Sezione “..sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” – evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura – che appare imposto dal richiamato articolo 4, comma 1…”).
Sicchè, sotto tale aspetto, ad avviso della Sezione, occorre interrogarsi circa la conformità fra:
– il diritto dell’UE (in particolare, fra l’articolo 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e
– il diritto interno (in particolare, l’articolo 4, comma 1, cit., interpretato nei detti sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato.
Da ciò, il secondo quesito interpretativo sopra riportato.

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About the Author: Valentina Magnano S. Lio

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La disciplina nazionale sugli affidamenti in house rimessa al vaglio della CGUE

Published On: 18 Gennaio 2019

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con tre ordinanze “gemelle” pubblicate il 7 gennaio 2019 col n. 138 ed il 14 gennaio 2019 col n. 293 e col n.296, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, due distinti quesiti interpretativi vertenti sulla disciplina nazionale in materia di società ed affidamenti in house, recata dal Codice dei contratti pubblici e dal Testo Unico delle Società Partecipate, chiedendo alla Corte di Giustizia di chiarire:

  • se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici’ – decreto legislativo n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento; e
  • se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate – decreto legislativo n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato.
  1. SUL PRIMO QUESITO INTERPRETATIVO.

Il primo quesito interpretativo sollevato dalla Sezione verte, come osservato, sull’articolo 192 (Regime speciale degli affidamenti in house), comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016, c.d. Codice dei contratti  pubblici, la cui violazione era stata lamentata da parte ricorrente, poi appellante, secondo il quale, ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti devono effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e “dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
La Sezione, rilevato che in effetti gli atti impugnati in primo grado (istitutivi dell’affidamento in house) appaiono prima facie non coerenti con le previsioni dell’articolo 192, comma 2, del Codice  “..in quanto non espongono adeguatamente le ragioni per cui si fa ricorso all’affidamento in house (mezzo da ritenere ormai, per il diritto italiano, derogatorio rispetto all’ordinario affidamento con procedure ad evidenza pubblica)…”, ha precisato di dubitare “…che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea…”.
In particolare, osserva la Sezione ai fini del rinvio pregiudiziale sul primo quesito, “… l’articolo 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato (come riguardati dalla presente controversia) sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):
i) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe;
ii) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento – con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto -). Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese…”.
Un tale restrittivo orientamento espresso dal Legislatore del 2016, osserva ancora la Sezione, si colloca peraltro “…in continuità con orientamenti analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (i.e.: sin dall’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008)…”, essendo stato oggetto anche di plurime pronunzie della Corte Costituzionale (cfr. in particolare, sentenza del 17 novembre 2010, n. 325, in cui la Corte costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere “limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie”, per restringere ulteriormente le eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo inderogabile; ed ancora sentenza del 20 marzo 2013, n. 46, secondo cui l’affidamento in regìme di delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica”).
In un tale contesto, quindi, ad avviso della Sezione occorre verificare se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall’articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione).
E ciò, rammentandosi come in tema di acquisizione dei servizi di interesse degli organismi pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui contestuale applicazione può comportare antinomie:  a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che vincoli di particolare modalità gestionale derivanti dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.: regime di affidamento con gara) rispetto a un’altra (ad es.: regime di internalizzazione ed autoproduzione); b) dall’altro, il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Principio sub b) che, ad avviso della Sezione, “..sembra presentare una valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia, rispetto al principio della libertà nella scelta del modello gestionale)…”, in quanto “…la prima scelta che viene demandata alle amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato…”.
Di talchè, “se si considera che l’in house providing è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e autoproduzione, risulta che lo stesso in house providing rappresenta non un’eccezione residuale, ma una normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo, che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza…”.
Insomma” – continua la Sezione – “.. da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti in house (sostanziale forma di autoproduzione) non sembrano posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti con gara; al contrario, sembrano rappresentare una sorte di prius logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o esternalizzazione dei servizi di proprio interesse. In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo…”.
Né l’ordinamento comunitario pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione (cfr. in particolare, CGUE – Grande Sezione sentenza del 9 giugno 2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo della Germania federale, in cui si è chiarito che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche”; CGUE – Terza Sezione sentenza del 13 novembre 2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant; Comunicazione interpretativa sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati – PPPi (documento C(2007)6661 del 5 febbraio 2008 della Commissione europea; articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE, rubricato ‘Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche’; Considerando 5 della Direttiva 2014/24/UE, secondo cui “… nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva …”).
Si pone a questo punto, ad avviso della Sezione, la questione della conformità fra:
– da un lato, “.. i richiamati princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non addirittura la prevalenza logica del sistema di autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione)..” e
– dall’altro, “.. le previsioni del diritto nazionale italiano (in particolare, il comma 2 dell’articolo 192 del Codice degli appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli affidamenti in house in una posizione subordinata e subvalente e – come detto – li ammettono soltanto in caso di dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale forma di gestione. Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per superare questa presunzione occorre dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento…”.
Previsioni e condizioni restrittive che, osserva ancora il Collegio “…potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta priorità sistematica al principio di mesa in concorrenza rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così non pare essere…”.
Da ciò, dunque, il primo quesito interpretativo sopra riportato.

  1. SUL SECONDO QUESITO INTERPRETATIVO.

La seconda questione sottoposta dalla Sezione alla Corte di giustizia dell’UE è invece connessa alla previsione contenuta all’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate (norma secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”), involgendo i vincoli posti dall’ordinamento interno alla partecipazione al capitale sociale da parte di soggetti pubblici che non esercitino il controllo analogo sulla società in house.
Al riguardo, il Collegio ha dapprima precisato in punto di fatto come lo statuto della società in house affidataria in via diretta del servizio di igiene urbana ed oggetto di ricorso, prevede due diverse categorie di soci (amministrazioni pubbliche): i c.d. ‘soci affidanti’ (che esercitano il controllo analogo sulla società in house e che possono conseguentemente operare affidamenti diretti in suo favore) ed i c.d. ‘soci non affidanti’ (che non esercitano un tale controllo analogo e non possono quindi operare affidamenti diretti in favore della società in house, configurandosi come “soci di mero conferimento di capitale”).
Quindi, ha osservato come, dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, “.. non sembrano emergere impedimenti a un tale particolare assetto societario…”.
Ed infatti “..se il diritto dell’UE (articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE) ammette che l’in house a controllo analogo congiunto sia possibile anche quando il capitale dell’organismo sia aperto alla partecipazione di capitali privati (purché non comporti loro controllo o potere di veto), non emergono ragioni per escludere che l’in house a controllo analogo congiunto possa sussistere anche nel caso di partecipazione di capitale di amministrazioni pubbliche (purché non esercitino controllo o poteri di veto e non effettuino affidamenti diretti).
Quindi, il particolarissimo schema della partecipazione societaria in *** (che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche) non sembra in contrasto con il diritto comunitario…”.
Sennonchè, ad avviso della Sezione, un tale schema sembra sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE.
In particolare, l’articolo 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate, il quale “…appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali…”, sembra escludere la possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’ decida in un secondo momento di acquisire il controllo analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto del servizio in favore della società in house (opzione questa che per la Sezione “..sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” – evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura – che appare imposto dal richiamato articolo 4, comma 1…”).
Sicchè, sotto tale aspetto, ad avviso della Sezione, occorre interrogarsi circa la conformità fra:
– il diritto dell’UE (in particolare, fra l’articolo 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e
– il diritto interno (in particolare, l’articolo 4, comma 1, cit., interpretato nei detti sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato.
Da ciò, il secondo quesito interpretativo sopra riportato.

About the Author: Valentina Magnano S. Lio