Nessuna incompatibilità nei procedimenti di chiamata dei professori universitari in caso di rapporto di coniugio

La Corte Costituzionale, con la decisione n.78 del 9 aprile 2019, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana – con ordinanza dell’8 febbraio 2018 –  in riferimento agli artt. 3 e 97 della, Costituzione, in ordine all’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010 (c.d. Legge Gelmini), nella parte in cui in cui non prevede, tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari, il rapporto di coniugio con un docente appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
La Suprema Corte, in particolare, ha ritenuto in primo luogo di rammentare come la disposizione censurata si inserisca all’interno della disciplina delle procedure di chiamata dei professori universitari, attraverso le quali gli atenei provvedono alla copertura dei posti di professore di prima e di seconda fascia, “procedure di valutazione comparativa”, che presuppongono il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e possiedono le caratteristiche del concorso, finalizzato alla scelta del miglior candidato in relazione al posto da ricoprire.

In particolare, rammenta ancora la Corte, all’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, sono elencate le condizioni che precludono la partecipazione ai procedimenti di chiamata, prevedendosi che da dette procedure siano espressamente esclusi «coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione».

Nella prospettazione del rimettente“, osserva quindi la Suprema Corte, “questo elenco evidenzierebbe una lacuna”, laddove non contempla il coniuge di chi sia già inserito nel dipartimento coinvolto nelle procedure indicate, viceversa prevedendo, quale situazione ostativa, il rapporto di affinità, il quale presuppone il coniugio.

Sotto il profilo testuale, quindi, “..il coniugio non ricade nel divieto in esame e sull’irragionevolezza di questa omissione si appuntano le censure del giudice a quo…”.

Tanto premesso, la Corte ha ritenuto che “..nell’ambito della disciplina delle modalità di accesso e di avanzamento nella carriera accademica, le preclusioni introdotte dalla disposizione censurata sono volte a garantire l’imparzialità delle procedure. Attraverso la previsione di limitazioni riferite alla situazione soggettiva dei possibili candidati, la legge n. 240 del 2010 ha inteso rafforzare, in termini assoluti e preclusivi, le garanzie di imparzialità della scelta dell’amministrazione.

Sino all’introduzione della disciplina in esame, ad evitare il pericolo di condizionamenti nello svolgimento della procedura era valso, invece, l’obbligo di astensione del soggetto che si trovasse in situazione di incompatibilità (art. 51 del codice di procedura civile, richiamato dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»). Nelle cause di incompatibilità, e nei modi di farle valere, di cui all’art. 51 cod. proc. civ., la giurisprudenza amministrativa ha individuato un modello generale, estensibile a tutti i campi dell’azione amministrativa, quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso ad impieghi pubblici.

Nell’intervento legislativo in esame, che pure ha introdotto procedure selettive, non solo nazionali, ma anche locali, volte a meglio tutelare l’imparzialità della selezione, le previste situazioni di rigida incandidabilità sono espressione di un bilanciamento fra il diritto di ogni cittadino a partecipare ai concorsi universitari e le ragioni dell’imparzialità, che è tutto improntato alla prevalenza di tali ragioni. Che essa non includa il coniugio come motivo di incandidabilità degli aspiranti alla chiamata non può ritenersi irragionevole. Il coniugio richiede, infatti, un diverso bilanciamento. Esso pone a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi, ma anche le molteplici ragioni dell’unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate.

Sono infatti fuor di dubbio le peculiarità del vincolo matrimoniale rispetto a tutte le altre situazioni personali contemplate dalla disposizione censurata. Il matrimonio scaturisce di frequente da una relazione che, nell’università come altrove, si forma nell’ambiente di lavoro dove si radicano le prospettive future di entrambe le parti. Si caratterizza per l’elemento volontaristico, viceversa mancante negli altri rapporti considerati, e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli, così come previsto dal codice civile.

La considerazione di tali elementi differenziali vale a giustificare, su un piano di ragionevolezza, il trattamento riservato dalla disposizione censurata al vincolo derivante dal matrimonio. Se, da un lato, la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia dell’unità familiare, dall’altro lato, la presenza dell’elemento volontaristico può rendere eludibile e, quindi, priva di effetti, la eventuale previsione normativa dell’incandidabilità del coniuge, frustrandone così le stesse finalità.

Appare dunque più aderente alle esigenze qui in gioco un bilanciamento che affidi la finalità di garantire l’imparzialità, la trasparenza e la parità di trattamento nelle procedure selettive a meccanismi meno gravosi, attinenti ai componenti degli organi cui è rimessa la valutazione dei candidati. Come già osservato, nell’art. 51 cod. proc. civ. è stata individuata l’espressione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso all’impiego pubblico. E in tale articolo, là dove lo si è voluto, il coniugio è esplicitamente regolato, accanto al rapporto di parentela e di affinità fino al quarto grado…”.

Infine, osserva la Suprema Corte, “..è … significativo che, in altri sistemi giuridici vicini al nostro, da un lato, vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l’unità familiare, e dall’altro lato, che qui maggiormente rileva, l’esigenza di preservare l’accesso alla carriera accademica da possibili condizionamenti è soddisfatta attraverso meccanismi diversi dalla drastica previsione dell’incandidabilità“.

Conclusivamente, quindi, le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal CGA, sono state ritenute infondate, rilevandosi come “…l’attuale regolazione delle situazioni che precludono la partecipazione alle procedure di chiamata costituisce, dunque, il risultato di un bilanciamento non irragionevole tra la pluralità degli interessi in gioco. La disposizione censurata non si pone, dunque, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 Cost., né lede i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost…”.
 

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Nessuna incompatibilità nei procedimenti di chiamata dei professori universitari in caso di rapporto di coniugio

Published On: 10 Aprile 2019

La Corte Costituzionale, con la decisione n.78 del 9 aprile 2019, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana – con ordinanza dell’8 febbraio 2018 –  in riferimento agli artt. 3 e 97 della, Costituzione, in ordine all’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010 (c.d. Legge Gelmini), nella parte in cui in cui non prevede, tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari, il rapporto di coniugio con un docente appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
La Suprema Corte, in particolare, ha ritenuto in primo luogo di rammentare come la disposizione censurata si inserisca all’interno della disciplina delle procedure di chiamata dei professori universitari, attraverso le quali gli atenei provvedono alla copertura dei posti di professore di prima e di seconda fascia, “procedure di valutazione comparativa”, che presuppongono il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e possiedono le caratteristiche del concorso, finalizzato alla scelta del miglior candidato in relazione al posto da ricoprire.

In particolare, rammenta ancora la Corte, all’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, sono elencate le condizioni che precludono la partecipazione ai procedimenti di chiamata, prevedendosi che da dette procedure siano espressamente esclusi «coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione».

Nella prospettazione del rimettente“, osserva quindi la Suprema Corte, “questo elenco evidenzierebbe una lacuna”, laddove non contempla il coniuge di chi sia già inserito nel dipartimento coinvolto nelle procedure indicate, viceversa prevedendo, quale situazione ostativa, il rapporto di affinità, il quale presuppone il coniugio.

Sotto il profilo testuale, quindi, “..il coniugio non ricade nel divieto in esame e sull’irragionevolezza di questa omissione si appuntano le censure del giudice a quo…”.

Tanto premesso, la Corte ha ritenuto che “..nell’ambito della disciplina delle modalità di accesso e di avanzamento nella carriera accademica, le preclusioni introdotte dalla disposizione censurata sono volte a garantire l’imparzialità delle procedure. Attraverso la previsione di limitazioni riferite alla situazione soggettiva dei possibili candidati, la legge n. 240 del 2010 ha inteso rafforzare, in termini assoluti e preclusivi, le garanzie di imparzialità della scelta dell’amministrazione.

Sino all’introduzione della disciplina in esame, ad evitare il pericolo di condizionamenti nello svolgimento della procedura era valso, invece, l’obbligo di astensione del soggetto che si trovasse in situazione di incompatibilità (art. 51 del codice di procedura civile, richiamato dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»). Nelle cause di incompatibilità, e nei modi di farle valere, di cui all’art. 51 cod. proc. civ., la giurisprudenza amministrativa ha individuato un modello generale, estensibile a tutti i campi dell’azione amministrativa, quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso ad impieghi pubblici.

Nell’intervento legislativo in esame, che pure ha introdotto procedure selettive, non solo nazionali, ma anche locali, volte a meglio tutelare l’imparzialità della selezione, le previste situazioni di rigida incandidabilità sono espressione di un bilanciamento fra il diritto di ogni cittadino a partecipare ai concorsi universitari e le ragioni dell’imparzialità, che è tutto improntato alla prevalenza di tali ragioni. Che essa non includa il coniugio come motivo di incandidabilità degli aspiranti alla chiamata non può ritenersi irragionevole. Il coniugio richiede, infatti, un diverso bilanciamento. Esso pone a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi, ma anche le molteplici ragioni dell’unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate.

Sono infatti fuor di dubbio le peculiarità del vincolo matrimoniale rispetto a tutte le altre situazioni personali contemplate dalla disposizione censurata. Il matrimonio scaturisce di frequente da una relazione che, nell’università come altrove, si forma nell’ambiente di lavoro dove si radicano le prospettive future di entrambe le parti. Si caratterizza per l’elemento volontaristico, viceversa mancante negli altri rapporti considerati, e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli, così come previsto dal codice civile.

La considerazione di tali elementi differenziali vale a giustificare, su un piano di ragionevolezza, il trattamento riservato dalla disposizione censurata al vincolo derivante dal matrimonio. Se, da un lato, la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia dell’unità familiare, dall’altro lato, la presenza dell’elemento volontaristico può rendere eludibile e, quindi, priva di effetti, la eventuale previsione normativa dell’incandidabilità del coniuge, frustrandone così le stesse finalità.

Appare dunque più aderente alle esigenze qui in gioco un bilanciamento che affidi la finalità di garantire l’imparzialità, la trasparenza e la parità di trattamento nelle procedure selettive a meccanismi meno gravosi, attinenti ai componenti degli organi cui è rimessa la valutazione dei candidati. Come già osservato, nell’art. 51 cod. proc. civ. è stata individuata l’espressione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso all’impiego pubblico. E in tale articolo, là dove lo si è voluto, il coniugio è esplicitamente regolato, accanto al rapporto di parentela e di affinità fino al quarto grado…”.

Infine, osserva la Suprema Corte, “..è … significativo che, in altri sistemi giuridici vicini al nostro, da un lato, vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l’unità familiare, e dall’altro lato, che qui maggiormente rileva, l’esigenza di preservare l’accesso alla carriera accademica da possibili condizionamenti è soddisfatta attraverso meccanismi diversi dalla drastica previsione dell’incandidabilità“.

Conclusivamente, quindi, le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal CGA, sono state ritenute infondate, rilevandosi come “…l’attuale regolazione delle situazioni che precludono la partecipazione alle procedure di chiamata costituisce, dunque, il risultato di un bilanciamento non irragionevole tra la pluralità degli interessi in gioco. La disposizione censurata non si pone, dunque, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 Cost., né lede i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost…”.
 

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