Parti di un immobile destinate al servizio di edifici limitrofi: il regime giuridico
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza numero 1615 resa il 16 gennaio 2024, si è pronunciata in ordine al regime giuridico cui è sottoposto il cortile di un immobile originariamente in proprietà di un unico soggetto, poi frazionato e acquistato all’asta, nei cui atti di acquisto non era stata riportata la “dicitura corte comune”.
La fattispecie esaminata
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dal frazionamento della proprietà di un edificio, precedentemente appartenente a un unico soggetto, in due distinte unità immobiliari, successivamente acquistate all’asta da soggetti diversi, nonché sul controverso diritto di proprietà vantato su una parte comune dell’immobile – la corte – che, seppur destinata all’uso comune, era stata recintata con catena e lucchetto al fine di impedirne tale uso medesimo.
Il giudizio di primo e secondo grado
Con ricorso promosso ai sensi dell’articolo 702 bis c.p.c. i ricorrenti, proprietari di un’unità immobiliare resa indipendente dal citato frazionamento, avevano incoato il giudizio in primo grado nei confronti della proprietaria e del conduttore dell’immobile limitrofo al fine di chiedere l’accertamento della comproprietà della corte e l’ordine, a parte resistente, di rimuovere la catena posta a chiusura dell’area comune.
Il Giudice di prime cure, accogliendo parzialmente il ricorso, d’un canto rigettava la domanda principale di accertamento del diritto di comproprietà dei ricorrenti e dall’altro, invero, condannava la rimozione della catena con lucchetto quali strumenti utili alla chiusura dell’area in comune di cui era causa.
Veniva incoato un successivo giudizio in appello, all’esito del quale, la statuizione di prime cure veniva riformata per l’effetto del parziale accoglimento dell’impugnazione principale e di quella incidentale.
E, in particolare, seppur l’impugnazione principale convinceva la Corte a revocare la condanna alla rimozione del lucchetto, la seconda, per converso, conduceva la stessa Corte a bilanciare gli interessi, chiarendo che gli immobili in oggetto erano comuni pro indiviso ai beni in proprietà esclusiva delle parti originariamente costituite da un appartamento, l’una, e da un’autorimessa, l’altra.
La Corte d’Appello evidenziava come il Giudice dell’esecuzione avesse considerato che “… sui citati locali entrambe le parti vantassero dei diritti reali pur se non era dato sapere con certezza se essi potessero qualificarsi come diritto di proprietà in comune e pro indiviso. (…) Pertanto qualora il titolo non fornisca elementi sufficienti per individuare la natura condominiale o pertinenziale di una porzione di fabbricato rispetto a quelle parti in proprietà esclusiva a diversi soggetti, in mancanza del titolo, dovrà trovare applicazione la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c. tenuto conto delle caratteristiche strutturali e funzionali da intendere come destinazione oggettiva (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (…)”.
Il giudizio di legittimità davanti la Cassazione
Anche la decisione di secondo grado veniva impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione dalla parte originariamente convenuta, e risultata (seppur in maniera parziale) soccombente nei precedenti giudizi, deducendosi sei motivi di ricorso ove, in estrema sintesi, lamentava: a) la “distorta e travisata rappresentazione della vicenda processuale”; b) l’erronea applicazione delle disposizioni contenute negli articoli 180 c.c., 210 c.c. e 333 c.p.c. sulla legittimazione a impugnare dei coniugi in regime di comunione legale; c) l’erronea disattenzione dei motivi del ricorso promosso dinanzi al giudice di prime cure; d) la violazione delle “norme afferenti all’interpretazione del contratto”, vizio di motivazione, travisamento della prova; e) l’errore di applicazione delle norme sulle parti comuni dell’edificio (articolo 1117 c.c.); e, infine, f) l’errore di applicazione delle norme sulla regolamentazione delle spese del giudizio.
La decisione della Suprema Corte di Cassazione
La pronuncia della Suprema Corte qui in rassegna, desta interesse per la particolare attenzione riservata ai seguenti temi.
- Il regime applicato ai beni destinati a servizio di più edifici limitrofi e autonomi
In proposito, giova evidenziare il richiamo operato dalla Suprema Corte di Cassazione all’iter logico-giuridico seguito dal Giudice d’appello il quale aveva, fra l’altro, fondato la propria decisione sulla relazione del CTU, segnatamente, nella parte in cui opportunamente vi si precisava che gli immobili frutto di frazionamento vantavano diritti sui beni comuni, quali la corte. Pertanto, non poteva non ritenersi che tali beni appartenessero in comune e pro indiviso ai proprietari delle unità oggetto di frazionamento.
Ed invero, il consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dall’ordinanza in esame, ritiene che dev’essere “… intesa come cortile, ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l’accesso (Cass. n. 3739 del 2018, tra le tante)”.
Gli Ermellini nel proseguo della decisione hanno, poi, illustrato come nella maggioranza dei casi il “cortile” è ricompreso nel regime contemplato dall’art. 1117, n.1, c.c., ossia quello dei beni comuni, salvo che vi sia uno specifico titolo contrario. In proposito, hanno rilevato che tale regime si applica altresì alle altre parti quali a titolo esemplificativo “… il cavedio – altrimenti denominato chiostrina, vanella o pozzo luce –, e cioè il cortile di piccole dimensioni, circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell’edificio comune, destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari, quali ad esempio bagni, disimpegni, servizi (Cass. n. 4350 del 2000)”.
Con la pronuncia in commento la Corte estende tale presunzione anche ad altri casi, enunciando in particolare come “… la presunzione legale di comunione, stabilita dall’art. 1117 c.c., si reputa inoltre operante anche nel caso di cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi e autonomi, tra loro non collegati da unitarietà condominiale (così, ad esempio, Cass. n. 14559 del 2004; n. 1619 del 1972)”.
Pertanto, nessun rilievo rivestiva nel caso in mano al Supremo Collegio l’omessa menzione sui titoli di acquisto del “diritto di condominio sul cortile”, restando invece salvo il “diritto di servirsi del cortile con le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c, ovvero con il divieto di alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini”.
- La legittimazione all’impugnazione del singolo comproprietario
Quanto al secondo motivo, la Corte ha rilevato che “… l’accoglimento dell’impugnazione proposta dal singolo comproprietario (nella specie, di immobile facente parte di una comunione legale coniugale e disgiuntamente legittimato ai sensi dell’art. 180, comma 1, c.c.) e, dunque, il giudicato favorevole alla comunione possano avvantaggiare tutti i contitolari del rapporto sostanziale (arg. da Cass. Sez. unite 13 novembre 2013, n. 25454)”.
Nessun ostacolo può, dunque, rinvenirsi nell’azione giudiziale, relativa a un bene immobile facente parte della comunione legale, promossa da uno solo dei coniugi, atteso che il disposto dell’articolo 180, comma 1, c.c. prevede che “la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all’amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi i coniugi e, quindi, ciascuno di essi è legittimato ad esperire qualsiasi azione, e nella specie le azioni di carattere reale dirette alla tutela della proprietà o del godimento dell’immobile o all’uso delle parti comuni, senza che sia indispensabile la partecipazione al giudizio dell’altro coniuge, non vertendosi in una ipotesi di litisconsorzio necessario (arg. da Cass. n. 27772 del 2023; n. 19435 del 2021; n. 18123 del 2013; n. 4856 del 2009; n. 22891 del 2007; n. 75 del 2006)”.
Nel caso in mano, peraltro, oltre a non essere stato ravvisato nessun dissenso, il coniuge-comproprietario aveva prestato acquiescenza alla decisione intervenuta in primo grado.
Conclusioni
All’esito al giudizio di ultima istanza, la Suprema Corte di Cassazione – in applicazione dei princìpi su richiamati – nel rigettare il ricorso proposto, ha accolto l’originaria domanda formulata dai coniugi-comproprietari nel giudizio di primo grado accertando la comproprietà della corte comune.
Col che, la pronuncia risulta di interesse poiché afferma nuovamente il principio di diritto secondo cui in caso di frazionamento della proprietà di un edificio comune in distinte unità immobiliari si determina una situazione di condominio.
Secondo la Cassazione, dunque, salvo il caso in cui vi sia uno specifico titolo contrario, per le parti “funzionali all’uso comune”, qual è il cortile – strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi – risulta legittima l’operatività della presunzione legale “pro indiviso”.