Professionisti: contributo integrativo al 4% anche per le prestazioni verso la PA
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4062 del 3 luglio 2018 qui in rassegna, ha riconosciuto la legittimità dell’applicazione del contributo integrativo al 4% anche per le prestazioni rese da alcune categorie di liberi professionisti verso la Pubblica Amministrazione.
I Giudici amministrativi hanno così messo la parola fine alla querelle giudiziaria iniziata nel 2013 a seguito del ricorso proposto dall’Epap (Ente di previdenza pluricategoriale per Attuari, Chimici, Geologi, Dottori Agronomi e Dottori Forestali) contro una nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che subordinava l’approvazione della proposta di modifica del regolamento dell’E.P.A.P. – già deliberata dal Consiglio dell’Ente – con riferimento al previsto aumento (dall’originario 2% al 4%) del contributo integrativo, alla condizione che il contributo stesso rimanesse invariato all’attuale 2% per le prestazioni rese a favore delle pubbliche amministrazioni “che si avvalgono delle prestazioni professionali degli iscritti E.P.A.P., al fine di evitare l’insorgere di maggiori oneri per la finanza pubblica”, facendosi leva sulla c.d. clausola di invarianza di cui alla Legge 133/2011.
Contro la decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, che in prime cure accoglieva il ricorso dell’EPAP, hanno proposto appello il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed il Ministero dell’Economia e Finanze, sostenendo che la decisione gravata non avrebbe tenuto conto della clausola d’invarianza contenuta nella citata legge 133/2011, che individua come limite all’intervento regolamentare dell’Ente di previdenza, la condizione che esso si attui “…senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica…”.
Tale clausola, tuttavia, ad avviso della Terza Sezione del Consiglio di Stato, “non si presta a disciplinare (né, quindi, a limitare) gli effetti incrementativi nei confronti della spesa pubblica suscettibili di derivare dall’aumento della percentuale di commisurazione del contributo integrativo, nei casi in cui l’obbligo di corresponsione dello stesso faccia carico alle Amministrazioni che entrino in (episodico) rapporto contrattuale con il professionista iscritto alla Cassa previdenziale…”.
In tale contesto pertanto, – continua il Supremo Consesso – “la clausola de qua non può che concretizzare un monito rivolto all’organo di gestione dell’Ente pluricategoriale affinché, nel disciplinare le modalità di destinazione di parte del contributo integrativo ai montanti individuali degli iscritti, adotti le opportune misure atte ad evitare che ne derivi l’alterazione degli equilibri finanziari del medesimo Ente“.
“Tali essendo le coordinate interpretative entro cui deve muoversi la ricerca del corretto significato normativo da attribuire all’art. 8, comma 3, l. n. 103/1996″, ad avviso della Terza Sezione, “… la clausola in questione, in quanto rivolta a disciplinare… l’esercizio del potere di regolamentare la destinazione del contributo integrativo, non potrebbe che avere riguardo agli effetti diretti del medesimo, risultando quindi estranei all’ambito della sua operatività le conseguenze indirette ed eventuali, connesse… ai maggiori oneri che le Amministrazioni committenti dovranno sostenere in sede di remunerazione delle prestazioni dei professionisti iscritti”.
In linea con quanto già affermato dal TAR Lazio dunque, i Giudici di Palazzo Spada – definitivamente pronunciandosi sulla questione – hanno affermato che la c.d. clausola d’invarianza, ove si accedesse all’interpretazione propugnata dalle Amministrazioni appellanti, violerebbe la ratio della Legge 133/2011 ovvero quella di “migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti alle casse o enti”, determinando “un’ingiustificabile ed insanabile disparità di trattamento” tra i professionisti che operano nel settore privato e quelli che, invece, lavorano in prevalenza o in esclusiva per la Pubblica Amministrazione che, di fatto, precluderebbe a quest’ultimi “…un trattamento pensionistico adeguato”.