Responsabilità indiretta della PA per fatto del dipendente, anche in caso di reato

Published On: 20 Maggio 2019Categories: Responsabilità civile, amministrativa e contabile, Tutele

Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”.
Questo è l’innovativo principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’interessante sentenza n.13246 del 16 maggio 2019, a ricomponimento della annosa querelle giurisprudenziale sui limiti e sull’inquadramento della responsabilità civile dello Stato (e, più in generale, degli enti pubblici) per fatti lesivi posti in essere da pubblici funzionari qualora detti fatti siano penalmente rilevanti.
L’impostazione tradizionale e maggioritaria, com’è noto, è sin qui stata quanto meno per la giurisprudenza civile, quella di escludere la responsabilità risarcitoria della Pubblica amministrazione, ogni qualvolta il comportamento del funzionario integri gli estremi del reato, sul presupposto che ciò interromperebbe il rapporto di c.d. immedesimazione organica e con esso il c.d.  nesso di causalità, rendendo quel comportamento – posto in essere dal dipendente “per fini strettamente personali ed egoistici” – non riferibile alla PA.
Con la decisione in rassegna,  le Sezioni Unite dopo aver ricostruito i termini della querelle giurisprudenziale e delineato il quadro normativo di riferimento, sia a livello di normazione primaria che di principi costituzionali, hanno invece ritenuto che “…nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici…”, dovendosi in particolare ammettere “…la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere…”.
Ed infatti, continuano le Sezioni unite “…il comportamento della P .A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell’art. 2043 cod. civ., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500) o si riconduce all’estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363)…”.
Sicchè,  se “…nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l’immedesimazione organica – di regola – pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all’ente; del resto, con l’introduzione dell’art. 21 septies legge n. 241 del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale – in genere esclusa se l’atto integra l’elemento oggettivo di un reato – comporta la mera nullità e non più l’inesistenza dell’atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l’attribuibilità all’ente dell’atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni)…”, “..nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l’operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all’ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l’operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell’ente pubblico – se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni – al di fuori dell’esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell’operato di altri…”.
Pertanto, osservano ancora le Sezioni Unite “ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell’ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell’U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona – ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130 – e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente…”; e d’altronde “…una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei diritti non può mai a queste essere – se non altro sic et simpliciter o in linea di principio – sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahic e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un’adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, Gafgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119)…”.
E ciò, dovendosi in definitiva, ritenere non più accettabile “…perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti…”.
Sulla scorta di tali coordinate, dunque, le Sezioni Unite hanno ritenuto di accogliere una ricostruzione sistematica della responsabilità di cui qui si discorre, articolata e composita, che presuppone la coesistenza e distinzione delle condotte dello Stato e degli enti pubblici “… a seconda che … esse siano poste in essere nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite…”.
Nel primo caso, “…l’illecito è riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell’Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall’art. 2049 cod. civ. 41…”.
Tale conclusione, osservano ancora le Sezioni Unite, “…comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico – ex art. 61 cpv. legge 11 luglio 1980, n. 312, su cui v. Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/87, su cui v. tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un’esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa…”.
Così superata “…la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto..”, le Sezioni Unite hanno altresì ritenuto di precisare come “.. più non ost(i) all’applicabilità dell’art. 2049 cod. civ. l’originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa. …” e come “…nemmeno l’ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente ost(i) alla generalizzazione del principio dell’art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell’attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P .A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello…”, nonché ancora come “… solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell’obbligazione risarcitoria l’attribuzione (talora normativa mente prevista: v. ad es. l’art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all’art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest’ultimo la prova della colpa pure dell’amministrazione…”.
I superiori principi peraltro ad avviso delle Sezioni Unite incontrano un opportuno temperamento “a tutela del preponente pubblico”, sul piano della operatività e dell’accertamento del nesso causale.
Ad avviso delle Sezioni Unite, infatti, il preponente pubblico – “…con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l’ente pubblico nella fattispecie di interesse…” – risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente solo “…ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto), ma in relazione all’oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o – a maggior ragione – contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti…”.
La conseguenza è dunque “…l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un’adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole ..” a tal fine invalse (e mutuate dalla disciplina rinvenibile nel codice penale); “…in secondo luogo, vige l’elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l’evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell’art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018)… e “…soprattutto, …è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri….”.
E ciò in quanto “…in tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell’estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del 2015 cit.)….”.
Con la conseguenza che “…quest’ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche emissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell’estrinsecazione, quand’anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall’illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull’occasionalità necessaria, tra cui l’estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto….”.
In conclusione pertanto, le Sezioni Unite hanno ritenuto essere fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico, in via concorrente rispetto alla responsabilità diretta del funzionario ex art. 28 della Costituzione, “…anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché:
– si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell’estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa – e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta;
nonché
– si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti…”.

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Responsabilità indiretta della PA per fatto del dipendente, anche in caso di reato

Published On: 20 Maggio 2019

Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”.
Questo è l’innovativo principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’interessante sentenza n.13246 del 16 maggio 2019, a ricomponimento della annosa querelle giurisprudenziale sui limiti e sull’inquadramento della responsabilità civile dello Stato (e, più in generale, degli enti pubblici) per fatti lesivi posti in essere da pubblici funzionari qualora detti fatti siano penalmente rilevanti.
L’impostazione tradizionale e maggioritaria, com’è noto, è sin qui stata quanto meno per la giurisprudenza civile, quella di escludere la responsabilità risarcitoria della Pubblica amministrazione, ogni qualvolta il comportamento del funzionario integri gli estremi del reato, sul presupposto che ciò interromperebbe il rapporto di c.d. immedesimazione organica e con esso il c.d.  nesso di causalità, rendendo quel comportamento – posto in essere dal dipendente “per fini strettamente personali ed egoistici” – non riferibile alla PA.
Con la decisione in rassegna,  le Sezioni Unite dopo aver ricostruito i termini della querelle giurisprudenziale e delineato il quadro normativo di riferimento, sia a livello di normazione primaria che di principi costituzionali, hanno invece ritenuto che “…nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici…”, dovendosi in particolare ammettere “…la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere…”.
Ed infatti, continuano le Sezioni unite “…il comportamento della P .A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell’art. 2043 cod. civ., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500) o si riconduce all’estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363)…”.
Sicchè,  se “…nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l’immedesimazione organica – di regola – pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all’ente; del resto, con l’introduzione dell’art. 21 septies legge n. 241 del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale – in genere esclusa se l’atto integra l’elemento oggettivo di un reato – comporta la mera nullità e non più l’inesistenza dell’atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l’attribuibilità all’ente dell’atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni)…”, “..nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l’operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all’ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l’operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell’ente pubblico – se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni – al di fuori dell’esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell’operato di altri…”.
Pertanto, osservano ancora le Sezioni Unite “ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell’ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell’U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona – ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130 – e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente…”; e d’altronde “…una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei diritti non può mai a queste essere – se non altro sic et simpliciter o in linea di principio – sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahic e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un’adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, Gafgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119)…”.
E ciò, dovendosi in definitiva, ritenere non più accettabile “…perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti…”.
Sulla scorta di tali coordinate, dunque, le Sezioni Unite hanno ritenuto di accogliere una ricostruzione sistematica della responsabilità di cui qui si discorre, articolata e composita, che presuppone la coesistenza e distinzione delle condotte dello Stato e degli enti pubblici “… a seconda che … esse siano poste in essere nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite…”.
Nel primo caso, “…l’illecito è riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell’Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall’art. 2049 cod. civ. 41…”.
Tale conclusione, osservano ancora le Sezioni Unite, “…comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico – ex art. 61 cpv. legge 11 luglio 1980, n. 312, su cui v. Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/87, su cui v. tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un’esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa…”.
Così superata “…la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto..”, le Sezioni Unite hanno altresì ritenuto di precisare come “.. più non ost(i) all’applicabilità dell’art. 2049 cod. civ. l’originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa. …” e come “…nemmeno l’ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente ost(i) alla generalizzazione del principio dell’art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell’attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P .A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello…”, nonché ancora come “… solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell’obbligazione risarcitoria l’attribuzione (talora normativa mente prevista: v. ad es. l’art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all’art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest’ultimo la prova della colpa pure dell’amministrazione…”.
I superiori principi peraltro ad avviso delle Sezioni Unite incontrano un opportuno temperamento “a tutela del preponente pubblico”, sul piano della operatività e dell’accertamento del nesso causale.
Ad avviso delle Sezioni Unite, infatti, il preponente pubblico – “…con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l’ente pubblico nella fattispecie di interesse…” – risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente solo “…ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto), ma in relazione all’oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o – a maggior ragione – contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti…”.
La conseguenza è dunque “…l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un’adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole ..” a tal fine invalse (e mutuate dalla disciplina rinvenibile nel codice penale); “…in secondo luogo, vige l’elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l’evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell’art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018)… e “…soprattutto, …è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri….”.
E ciò in quanto “…in tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell’estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del 2015 cit.)….”.
Con la conseguenza che “…quest’ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche emissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell’estrinsecazione, quand’anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall’illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull’occasionalità necessaria, tra cui l’estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto….”.
In conclusione pertanto, le Sezioni Unite hanno ritenuto essere fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico, in via concorrente rispetto alla responsabilità diretta del funzionario ex art. 28 della Costituzione, “…anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché:
– si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell’estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa – e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta;
nonché
– si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti…”.

About the Author: Valentina Magnano S. Lio