Sanabilità di opere abusive realizzate in aree soggette a vincolo sopravvenuto
La Seconda Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6162 del 01.09.2021 qui in rassegna, ha affermato alcuni rilevanti principi in tema di “astratta sanabilità”, ai sensi della legge 47/1985, di opere abusive realizzate in aree soggette a vincolo di inedificabilità sopravvenuto.
Nel caso sottoposto all’esame del Supremo Consesso era – in estrema sintesi – avvenuto che l’originario proprietario aveva realizzato abusivamente delle “mura di contenimento a gradoni” ed un “terrapieno” a ridosso d’un torrente, l’anno prima che entrasse in vigore la legge 5 gennaio 1994, n. 36 (c.d. Legge Galli) la quale, nello stabilire che «tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà», aveva ex lege assimilato l’area di intervento a quelle degli alvei di acque pubbliche (introducendo per l’effetto la relativa fascia di rispetto di 10 metri, sottoposta a vincolo di inedificabilità di tipo assoluto).
L’istanza di condono, successivamente presentata dall’interessato ai sensi della legge 47/1985, veniva tout court respinta dall’Amministrazione comunale ed il provvedimento di diniego, impugnato dinanzi al TAR Lombardia, veniva da questo ritenuto legittimo, sull’assunto che l’opera era ubicata nella fascia di rispetto delle acque pubbliche (“tale essendo anche il corso d’acqua in questione, successivamente incluso nel censimento del reticolo idrico minore” deliberato alcuni anni dopo).
Il Consiglio di Stato, con la decisione commentata, perviene tuttavia a conclusioni differenti.
In primo luogo, il Collegio decidente ha rammentato in punto di diritto ed in termini generali come la fattispecie in esame trovasse la sua disciplina nella legge sul condono edilizio del 28 febbraio 1985, n. 47, “la quale consente, a date condizioni, la sanatoria anche di opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo (art. 32, comma 1) subordinandola al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Il successivo art. 33, statuisce che non sono suscettibili di sanatoria – tra l’altro – le opere realizzate in contrasto con i «vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali» e con «ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree», precisando che in ogni caso deve trattarsi di vincoli «imposti prima della esecuzione delle opere stesse».
Quindi, il Collegio ha rammentato come la “questione della rilevanza dei vincoli sopravvenuti nei procedimenti di sanatoria edilizia è stato oggetto di un articolato dibattito giurisprudenziale”, così sunteggiato: “i) nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione, l’Amministrazione competente ad esaminare l’istanza di condono proposta ai sensi delle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994 deve acquisire il parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (Adunanza Plenaria, 22 luglio 1999, n. 20); ii) in definitiva, in caso di sopravvenuto regime di inedificabilità dell’area, l’Amministrazione deve valutare se vi sia compatibilità tra le esigenze poste a base del vincolo e la permanenza in loco del manufatto abusivo”.
Applicando tali coordinate al caso esaminato, il Supremo Consesso – anche sulla scorta di quanto emerso all’esito di apposita verificazione, disposta in seconde cure – ha riformato la decisione del TAR Lombardia che era stata oggetto d’appello ed ha accolto il ricorso introduttivo laddove si censurava in particolare “l’assertività” del diniego di condono, “sull’errato assunto della preesistenza del vincolo alla realizzazione dell’opera abusiva”.
La decisione di secondo grado si segnala anche per l’ultima, importante, considerazione che si rinviene nelle sue conclusioni.
Il Collegio infatti, pur dando del consolidato orientamento “dal quale non intende discostarsi, in forza del quale l’ingiunzione al ripristino dello stato dei luoghi non necessita di alcuna valutazione di interesse esplicitata in motivazione, essendo quello pubblico al corretto assetto del territorio intrinseco nella constatata violazione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. II, n. 5016/2021)”, ha infine ritenuto anche che “la peculiarità del caso di specie imponeva effettivamente una diversa ponderazione, non potendo non essere valutate le conseguenze della demolizione, in assenza di rimedi alternativi a tutela dalle esondazioni”.
Nel corso della verificazione – ha ancora osservato il Collegio – era infatti emerso che le mura di contenimento sia pure abusivamente realizzate, «prevengono efficacemente dal rischio idraulico le zone circostanza ed a loro volta né provocano né accentuano alcun rischio idraulico»; per contro, l’Amministrazione comunale aveva sì in atti invocato “soluzioni alternative, in quanto maggiormente in linea con le buone tecniche più recenti”, ma nulla di concreto aveva riferito circa le sue “intenzioni ..per attuarle”, onde apprestare un “qualsivoglia altro accorgimento idoneo a produrre il medesimo effetto di argine”. “Dagli atti di causa”, ha dunque concluso il Collegio, “emerge chiaramente che la proprietà ha dovuto negli anni sopperire all’inerzia pubblica a fronte delle reiterate esondazioni, presumibilmente da correlare all’avvenuta deviazione del corso d’acqua in quel tratto”.
Anche per ciò, dunque, l’appello è stato accolto.