Sulla fallibilità delle società pubbliche
La Prima Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 5346 del 22 febbraio 2019, è tornata a pronunziarsi sulla questione della fallibilità delle società pubbliche, riaffermando il principio per cui “..la società di capitali con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché gli enti pubblici (comune, provincia e simili) ne posseggano le partecipazioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della società medesima, la persona dell’azionista, dato che la società, quale persona giuridica privata, opera comunque nell’esercizio della propria autonomia negoziale..” (cfr. Cass. Sez. U n. 7799-05, Cass. Sez. U n. 4989-95).
“Il rapporto tra la società e l’ente locale”, continua la Cassazione “.. è, cioè, di sostanziale autonomia, al punto che non è consentito al comune di incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo (e sull’attività dell’ente collettivo) mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali..”.
Né la sopra detta caratteristica è incisa dall’eventualità del controllo analogo.
Difatti, continua la Cassazione nella decisione in rassegna “…come riconosciuto anche dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. C. Stato n. 2533-17), sebbene con specifico riferimento agli affidamenti in house (ai fini del riparto di giurisdizione in materia di contratti pubblici tra giudice amministrativo e giudice ordinario, v. ex multis Cass. Sez. U. 9149-17, n. 23468-16 e n. 22233-16), il cd. “controllo analogo” esercitato dall’amministrazione sulla società partecipata serve a consentire all’azionista pubblico di svolgere un’influenza dominante sulla società, se del caso attraverso strumenti derogatori rispetto agli ordinari meccanismi di funzionamento, così da rendere il legame partecipativo assimilabile a una relazione interorganica; e tuttavia questa relazione interorganica non incide affatto sull’alterità soggettiva dell’ente societario nei confronti dell’amministrazione pubblica, dovendosi mantenere infine pur sempre separati i due enti – quello pubblico e quello privato societario – sul piano giuridico-formale, in quanto la società in house rappresenta pur sempre un centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall’ente partecipante.
In altre parole, la natura di ente in house deriva da una visione sostanziale del fenomeno tipico dell’approccio funzionale seguito in sede europea, nell’ambito del quale gli istituti giuridici elaborati a livello sovranazionale sono applicati sulla base della reale essenza della fattispecie concreta, a prescindere dalle qualificazioni formali vigenti negli ordinamenti dei singoli Paesi membri. Resta intatta la considerazione, però, che nell’ambito dell’ordinamento nazionale (che solo rileva ai fini specifici) non è prevista – per le società in house così come per quelle miste – alcuna apprezzabile deviazione rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, nel senso che la posizione dei comuni all’interno della società è unicamente quella di socio in base al capitale conferito. Donde soltanto in tale veste l’ente pubblico può influire sul funzionamento della società, avvalendosi non di poteri pubblicistici ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri presenti negli organi della società…”.
Simili notazioni, sono state dunque ritenute determinanti ai fini del fallimento (che la Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, aveva erroneamente escluso).
E ciò in quanto “…l’art. 1 legge fall. esclude dall’area della concorsualità gli enti pubblici, non anche le società pubbliche. Per queste trovano applicazione le norme del codice civile (art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 135 del 2012, e, quindi, art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016), nonché quelle sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 14 d.lgs. n. 175 del 2016), e non hanno fondamento “le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui all’art. 4 della I. n. 70 del 1975, che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo” (v. Cass. n. 3196-17).
La scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, in ogni caso comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza – “pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto e attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità” (così Cass. n. 22209-13)…”.
Da ciò, dunque l’accoglimento del ricorso per cassazione e la cassazione, con rinvio della sentenza impugnata.