Sulla possibile e progressiva riduzione della discrezionalità amministrativa (anche tecnica) per effetto del giudicato amministrativo
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con l’interessante decisione pubblicata il 25 febbraio 2019 col n. 1321 (Presidente Luigi Carbone; Relatore Dario Simeoli), ha innovativamente affermato che, in certi casi, il susseguirsi di più giudicati di annullamento, seppur può non integrare una vera e propria violazione e/o elusione di giudicato, può avere comunque l’effetto di «svuotare» l’amministrazione del proprio potere discrezionale, giustificando un vincolo conformativo che il Giudice Amministrativo può accertare anche ex ante in sede cognitoria (e non solo ex post, in sede di ottemperanza), in funzione di una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di interessi pretensivi.
Per una migliore comprensione del decisum, merita di essere anzitutto sintetizzata la vicenda che lo ha originato.
Nello specifico era in particolare avvenuto che una candidata alla procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale (cd. “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia indetta dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca per l’anno 2012, veniva giudicata non idonea ed impugnava tale primo giudizio negativo dinanzi al T.a.r. Lazio – Roma il quale, con una prima decisione, lo riteneva illegittimo e per l’effetto, ordinava il riesame ad opera di una nuova Commissione.
Anche in sede di rivalutazione, tuttavia, la candidata veniva giudicata inidonea; sicchè, essa proponeva un ulteriore ricorso al TAR Lazio che, con successiva decisione, annullava anche tale secondo giudizio negativo, ordinando nuovamente il riesame della candidata.
Anche la Commissione di rivalutazione tuttavia negava l’ASN e la candidata si vedeva costretta a proporre un ulteriore ricorso al TAR Lazio il quale, tuttavia, stavolta respingeva l’impugnativa, escludendo in particolare che fosse sussistente il dedotto vizio di violazione/elusione del giudicato (in ragione del carattere discrezionale della potestà amministrativa incisa dal precedente giudicato amministrativo).
Avverso tale decisione la candidata ha quindi proposto appello al Consiglio di Stato, deducendo ancora una volta una violazione e/o elusione da parte del Ministero resistente del giudicato formatosi inter partes, nonché ed in ogni caso l’illegittimità del terzo giudizio negativo espresso nei propri confronti.
Il Consiglio di Stato, con la decisione qui segnalata, ha anzitutto rammentato come, secondo ormai consolidato indirizzo (cfr. sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013), “..è ben ammissibile la proposizione di un solo ricorso – in luogo dei due che l’interessato in passato, per ragioni di cautela processuale, era costretto ad esperire – avverso tutti i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un precedente provvedimento, davanti al giudice dell’ottemperanza. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso in sede di cognizione avverso il medesimo nuovo provvedimento. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione…”.
Quindi, il Collegio è passato a delibare la censura di violazione del giudicato riproposta dalla candidata appellante, respingendola.
E ciò, osservando come “…il dibattito sulle forme di tutela azionabili nel caso in cui l’amministrazione reiteri con uguale risultato negativo gli esiti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo è risalente…” e riassumendone, “senza alcuna pretesa di esaustività”, i termini come segue: “..secondo un’impostazione teorica che ha avuto ampio seguito, il giudicato cristallizza solo un segmento del “flusso” amministrativo continuativo ed inesauribile. La validità del provvedimento impugnato non viene scrutinata dal giudice nel suo complesso – ovvero per qualsiasi ipotetico vizio, anche non apertamente sollevato nel processo – bensì solo in relazione agli specifici vizi motivi esposti nel ricorso. In ragione del carattere «ristretto» e «frammentario» della cognizione, l’azione amministrativa si ri-espande su tutti gli spazi non coperti dalla parentesi giurisdizionale.
Su queste basi, si fronteggiano tuttavia due letture divergenti del giudizio di ottemperanza.
L’indirizzo maggioritario assume che le regole fissate in sede di cognizione – aventi carattere «implicito», «elastico», «condizionato», e «incompleto» – possano essere integrate nel giudizio di ottemperanza, con la conseguenza che il giudicato sostanziale (ovvero la definizione dell’assetto di interessi controverso) si forma soltanto «in via progressiva». Tale impostazione, che identifica nell’ottemperanza la «chiave della giurisdizione amministrativa», non ha però mai chiarito in quali specifici termini il giudizio di ottemperanza possa completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione, manifestandosi opinioni divergenti circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una questa peculiare «cognizione esecutiva».
Un opposto orientamento ritiene invece che la sentenza amministrativa sia titolo esclusivamente per l’azione esecutiva e non per la “prosecuzione” del giudizio di cognizione, cosicché il giudizio di ottemperanza dovrebbe limitarsi a tradurre in atto le statuizioni contenute nella sentenza definitiva senza possibilità di integrarle.
In tempi recenti sono state formulate – in giurisprudenza come in dottrina – svariate proposte “operative” ispirate ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo (i quali imporrebbero di rimeditare la tesi del giudicato a formazione progressiva). Al fine di riconoscere al giudicato amministrativo l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo:
– una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione (secondo una variante, analogo vincolo deriverebbe, prima ancora che dal giudicato, dalla preclusione maturata nel corso del procedimento amministrativo);
– una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola.
Sennonché, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 – chiamata a giudicare proprio sulla rinnovazione di un concorso universitario in cui la medesima commissione aveva reiterato con motivazioni diverse il suo giudizio negativo già oggetto di annullamento giurisdizionale – non ha accolto le predette istanze evolutive, in quanto ritenute contrastanti con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione. La peculiarità del giudizio amministrativo – si è detto – impedisce la piena espansione del principio del dedotto e del deducibile, poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso. La sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (andando a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato) non può che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza.
La successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 11 del 9 giugno 2016, in continuità con la citata statuizione del 2013, afferma che «[l]a dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale» (mette conto precisare che, in tale caso, la riedizione del potere viene giustificata sulla scorta di una sopravvenienza giuridica, cui viene equiparata la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia, mentre la precedente sentenza dell’Adunanza plenaria del 2013 si pronunciava sulla deduzione di fatti pregressi ma non dedotti nel precedente giudizio).
L’impostazione di fondo – secondo cui l’efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione sfavorevole del potere, anche in assenza di sopravvenienze – è presupposta anche dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 9 febbraio 2016, relativa ad una fattispecie di inerzia dell’amministrazione, in cui viene riconosciuto il potere del commissario ad acta di emanare un provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del Testo unico sull’edilizia n. 327/2001).
3.3.– Alla stregua di tali statuizioni – che il Collegio reputa di non potere mettere in discussione, salvo darvi ulteriore svolgimento nei termini che saranno precisati nel proseguo della motivazione – va preliminarmente circoscritto l’ambito delle preclusioni, discendenti dal giudicato formatosi sui precedenti dinieghi di abilitazione. La dimensione oggettiva del giudicato amministrativo è correlata all’oggetto del processo e alla struttura del giudizio. Quando, come accade nella specie, è impugnato un provvedimento discrezionale, i limiti oggettivi del giudicato amministrativo sono saldamente ancorati agli specifici argomenti di fatto e di diritto che integrano la violazione accertata dal giudice. Occorre quindi isolare il «dispositivo sostanziale» della motivazione, che nel processo amministrativo oltrepassa la funzione meramente giustificativa della decisione, in quanto può conformare la successiva attività amministrativa…”.
Sulla scorta di tali coordinate ermeneutiche, pertanto, il Collegio ha esaminato il contenuto di accertamento proprio dei due giudicati amministrativi intervenuti fra le parti ed ha ritenuto che esso fosse in concreto al quanto ristretto, “..difettando qualsivoglia statuizione sulla fondatezza della pretesa…” della candidata (con conseguente infondatezza del motivo d’appello incentrato, per l’appunto, sulla violazione del giudicato, reso tanto più inconfigurabile nello specifico per effetto dell’avvicendarsi di tre distinte commissioni di valutazione).
Il Collegio, quindi, è passato ad esaminare le sollevate censure di legittimità, rilevandone la fondatezza nel merito e per l’effetto annullando anche il terzo giudizio di inidoneità reso nei confronti dell’appellata, per eccesso di potere, difetto istruttorio e della motivazione.
A questo punto, il Collegio ha ritenuto di “precisare le conseguenze del dispositivo di annullamento”, ritornando – ancora una volta – “..sulla questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un diniego su di una istanza, l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il ricorrente aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, ovvero se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino…”.
E ciò, ritenendosi di dover dare un ulteriore svolgimento alle “recenti statuizioni dell’Adunanza plenaria – di cui si è dato sopra conto ..” e rilevandosi come “…non sia accettabile che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private…”.
Il ragionamento condotto dal Collegio merita di essere riportato per esteso, per la sua complessità ed innovatività.
“Il discorso – evidentemente molto ampio, in quanto involge svariati aspetti di teoria generale: la struttura impugnatoria del processo su ricorso, il suo oggetto, i rapporti tra atto e processo, tra processo e procedimento, tra cognizione ed esecuzione, nonché la consistenza della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo – va opportunamente circoscritto.
Il giudicato amministrativo si presenta infatti in modo proteiforme, a seconda del modello di azione in contestazione (in particolare, a seconda del tipo e grado di discrezionalità amministrativa), delle situazioni giuridiche coinvolte (diritti e interessi legittimi, oppositivi e pretensivi), e della tipologia di vizio posto a fondamento della pronuncia costitutiva.
La fattispecie presa in considerazione è quella in cui il vizio accertato con l’autorità del giudicato consiste nella violazione di una norma che assicura all’istante soltanto la possibilità di conseguire il bene finale. L’illegittimità – relativa, nella specie, al dovere di logica e corretta motivazione – non ha determinato la privazione di un’utilità che il diritto assicurava con certezza all’istante, ben potendo non avere avuto alcun ruolo eziologico nel determinare il dispositivo del provvedimento che si assume pregiudizievole.
Nel sistema di tutela amministrativa ben possono darsi disposizioni protettive la cui violazione priva gli interessati non del risultato finale, bensì di una utilità intermedia, consistente nella mera possibilità di un risultato vantaggioso. In tali casi, la sentenza non si pone quale fonte diretta del «rapporto amministrativo» in sostituzione di un «atto amministrativo», semplicemente perché non può contenere l’accertamento sostanziale dei presupposti per ottenere il risultato della vita. In definitiva, quando l’eliminazione dell’atto impugnato avviene sulla base dell’accertamento di uno o più vizi che attengono a elementi discrezionali dell’esercizio del potere, la sentenza limita il potere nella sua fase di rinnovo ma senza segnarne l’esito.
Va subito precisato che tale limitatezza dell’oggetto del decisum si spiega, per l’appunto, in ragione delle specifiche caratteristiche del “bene intermedio” tutelato – segnatamente: il valore distinto ed autonomo costituito dalla perdita della possibilità di conseguire il risultato sperato – e non a cagione di una presunta inadeguatezza del sistema di giustizia amministrativa. È vero semmai il contrario: il processo amministrativo garantisce una (specifica) tutela costitutiva rispetto a posizioni giuridiche che, nell’ambito dei rapporti civili soggetti alla giurisdizione ordinaria – dove pure possono aversi conflitti prettamente “modali”, aventi cioè ad oggetto posizioni strumentali e non finali –, ricevono una tutela (ex post) meramente risarcitoria (danno alla chance), e talora restano addirittura privi di uno sbocco di tutela (si pensi, per citare un caso emblematico, al licenziamento giustificato da ragioni inerenti all’attività produttiva, rispetto al quale l’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, prevede che «l’inosservanza delle disposizioni in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto»).
Nei casi in cui l’interesse legittimo attiene – come nel caso di specie – a tale “bene intermedio”, l’ordinamento amministrativo, sovente, non predetermina alcuna gerarchia degli interessi in conflitto, demandando tale compito all’azione amministrativa, sia pure sottoponendola a condizioni. La protezione di questo “bene intermedio”, allora, si proietta nel procedimento decisionale attraverso congegni limitativi e conformativi del potere amministrativo. Quando tali limitazioni – nel caso di specie, il vincolo di motivazione coerente ed esaustiva – non ricomprendono nel loro raggio di protezione l’interesse materiale, la tutela processuale di annullamento finisce per incidere sulle manifestazioni del potere amministrativo in termini essenzialmente negativi.
Resta da capire se questa “possibilità attuativa” debba necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, oppure se il sistema di giustizia amministrativa sia in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali. La necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione – che il collegio condivide pienamente – secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi «capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo».
A tal fine, non è utilmente invocabile il principio del dedotto e del deducibile, quale espediente per ampliare i confini di estensione dell’area coperta dalla forza del giudicato amministrativo. Al di là delle svariate ricostruzioni dottrinali, l’anzidetto principio giurisprudenziale – il quale, come avverte la dottrina, non influisce in modo alcuno nel senso di restringere o ampliare i limiti oggettivi del giudicato – sta ad indicare che non è ammesso al giudice di un futuro processo di disconoscere o diminuire il bene riconosciuto nel precedente giudizio: ma tale bene, nella ipotesi in esame, è rappresentato dalla sola possibilità di vedere realizzato il risultato sperato. Per gli stessi motivi è del pari infruttuoso richiamare gli esiti del dibattito civilistico sull’oggetto del processo e del giudicato nelle impugnative c.d. negoziali, in quanto trattasi di profili che evidentemente per nulla sono in grado di proiettare verso la «spettanza» la tipologia di contenzioso in esame.
5.2.– All’esito dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo, il sistema delle tutele è stato segnato dai seguenti principali sviluppi, che si pongono tutti in direzione di una maggiore “effettività” del sindacato del giudice amministrativo, sia nei casi in cui il provvedimento viene confermato, sia nei casi in cui l’interesse legittimo viene ritenuto leso.
Quanto al primo di tali profili, mentre lo schema classico della giustizia amministrativa era contrassegnato dalla equivalenza di tutte le norme violate, nel contesto attuale le risultanze del processo devono essere invece commisurate alla consistenza dell’interesse materiale: ciò accade, sia nell’azione costitutiva – dove, per effetto dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, la difformità dal diritto obiettivo che non abbia inciso sulla adeguata sistemazione degli interessi in gioco non può comportare l’annullamento dell’atto –, sia nell’azione di condanna, dove pure non può accordarsi protezione al portatore di rimostranze meramente “formalistiche”.
Quanto al secondo di tali profili, anche (rectius, soprattutto) la protezione dell’interesse legittimo ha nel contempo guadagnato in «effettività», sotto i seguenti aspetti:
– il c.p.a. prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, il quale riflette l’esigenza di una tutela conformata non alla situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell’interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante;
– per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita;
– è oramai acclarata la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento (l’art. 64 del c.p.a. contiene una traccia, sia pure incompiuta, degli oneri di contestazione, di allegazione, di prova necessari ad ordinare in forma sequenziale un giudizio esteso al rapporto), in quanto al giudice compete l’accertamento del fatto senza essere vincolato a quanto rappresentato nel provvedimento;
– al giudice della cognizione è stato attribuito il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e), consentendo di esplicitare a priori, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più a posteriori, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento;
– in definitiva, la giurisdizione è piena, nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa.
5.3.– Sennonché, sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale. Ciò accade proprio nell’ipotesi in discussione di “discrezionalità tecnica”, in cui il fatto presupposto del potere di abilitazione (segnatamente: il livello di maturazione scientifica dei candidati) viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di “fatto storico” (accertabile in via diretta dal Giudice), bensì di fatto “mediato” e “valutato” dalla pubblica amministrazione. In questi casi, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto.
Per ampliare i margini di tutela, l’interessato resta libero di far valere, non solo la pretesa ad un provvedimento (specifico) satisfattivo, ma anche la pretesa (minore) ad un provvedimento legittimo. L’accoglimento dell’interesse strumentale qui non è altro che un modo di proteggere l’interesse finale, nei casi in cui (per l’atteggiarsi concreto della singola fattispecie normativa e amministrativa) non sia possibile dedurre in giudizio la titolarità di una posizione sostantiva finale, bensì soltanto il rispetto di un sistema di regole.
L’anfibologia del c.p.a. – che riflette la flessibilità che lo strumento processuale deve assicurare, in vista della eterogeneità della situazioni che possono realizzarsi nel concreto dispiegarsi dell’azione amministrativ(a) – risulta evidente dalla trama normativa:
– mentre l’ampia formulazione dell’art. 114 c.p.a. riflette la tradizionale tesi della riedizione della funzione amministrativa dopo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo, sindacabile in una fase processuale di “esecuzione a cognizione integrata”, l’art. 34 c.p.a., introducendo una inedita modalità di “cognizione ad esecuzione integrata”, sembra postulare che non sia riservata alla funzione esecutiva la traduzione in concreto dei precetti;
– mentre gli artt. 7, commi 1 e 4, 30 e 108 chiamano in causa l’interesse legittimo, gli artt. 31, comma 3, 34 comma 5, e 40, riferendosi rispettivamente alla pretesa e all’oggetto della domanda, richiamano l’aspettativa di conseguire il bene della vita.
6.– Lo stesso codice del processo amministrativo, pur non tratteggiando un modello compiuto, consente di delineare in via interpretativa un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria. Ad avviso del collegio tale dispositivo può essere indentificato, su più ampie basi argomentative, nella “riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa”, in via sostanziale o processuale.
6.1.– In primo luogo, viene in rilievo il richiamo, effettuato in esordio, all’esigenza di una tutela piena ed effettiva «secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» (art. 1). Il principio del rimedio effettivo (frutto della convergenza sinergica, in tema di garanzie della tutela giudiziaria, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo con le previsioni della Carta costituzionale) ha reso oramai recessiva l’idea che la garanzia delle posizioni sostanziali possano restringersi al mero accesso a un giudice e a una procedura regolata dalla legge, implicando invece anche la possibilità di ottenere un provvedimento di tutela adeguato e omogeneo al bisogno di protezione di chi agisce. L’enfasi sulla strumentalità delle regole del processo rispetto alle ragioni della giustizia sostanziale ed il necessario riscontro di adeguatezza tra il mezzo di tutela e la posizione sostanziale segnano il passaggio dal principio di atipicità dell’azione, al principio di atipicità delle forme di tutela. Se l’effettività della tutela giurisdizionale è la capacità del processo di far conseguire i medesimi risultati garantiti dalla sfera sostanziale, l’interesse legittimo abbisogna della predisposizione dei rimedi idonei a garantire il conseguimento dell’utilità “primaria” specificatamente oggetto dell’aspettativa riconosciuta dall’ordinamento.
6.2.– Su queste basi assiologiche, il codice del processo amministrativo affida poi a due disposizioni il compito di esplicitare (per la prima volta) il punto di contemperamento tra il principio di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (24, 103 e 113 Cost., artt. 6 e 13 della Convenzione europea) ed il principio di separazione dei poteri (art. 1 e 97 Cost., con il quale tradizionalmente viene giustificata la riserva di valutazione in capo alla pubblica amministrazione).
L’art. 31, comma 3, del c.p.a. – avente applicazione generale, sia che l’amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego – dispone che: «[i]l giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione». Quindi, per la definizione dell’intero rapporto sostanziale, vengono dettati i seguenti limiti: soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto.
Dall’art. 34, comma 2, del c.p.a. – alla cui stregua il giudice non può pronunciarsi che «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» (art. 34, comma 2) – si desume invece che non sono consentite domande di tutela preventiva dell’interesse legittimo, dirette cioè ad orientare l’azione futura dell’amministrazione, prima che questa abbia ancora provveduto.
Ebbene, la “riduzione” della discrezionalità amministrativa (anche tecnica) può essere l’effetto:
a) sul piano “sostanziale”, degli auto-vincoli discendenti dal dipanarsi dell’azione amministrativa, contrassegnata dal crescente impiego di fonti secondarie e terziarie che si pongono spesso come parametri rigidi per sindacare l’esercizio della funzione amministrativa concreta (anche se originariamente connotata in termini discrezionali);
b) sul piano “processuale” dei meccanismi giudiziari che, sollecitando l’amministrazione resistente a compiere ogni valutazione rimanente sulla materia controversa, consentono di focalizzare l’accertamento, attraverso successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (si pensi alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere, ma anche alle preclusioni istruttorie e alla regola di giudizio fondata sull’onere della prova), concentrando in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza.
La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.
In alcuni casi, può accadere che la pervicacia degli organi amministrativi a reiterare le statuizioni annullate integri una elusione (palese o occulta) del giudicato: in tal caso deve ammettersi la possibilità, per il giudice dell’ottemperanza, di sindacare anche su aspetti non pregiudicati dalla sentenza.
Ma anche in una vicenda come quella in esame – in cui, per le ragioni anzidette, l’alternarsi di tre diverse Commissioni non consente di ravvisare nel nuovo vizio di illegittimità un palese sintomo dell’intento di non attuare il giudicato –, il susseguirsi di tre giudicati di annullamento ha comunque l’effetto di «svuotare» l’amministrazione del proprio potere discrezionale. Con la precisazione che il giudicato costituisce, in tale ipotesi, un vincolo alla discrezionalità amministrativa operante come “fatto” e non come “atto”.
6.3.– Pur con tutte le inevitabili esigenze di assestamento, il rimedio appena tratteggiato – i cui contorni ed i cui limiti saranno precisati dalla casistica giurisprudenziale (che dovrà specificare, ad esempio, cosa accade quando vengano in rilievo decisioni pubbliche di elevata discrezionalità e valore politico) – appare in grado di contemperare la regola per cui il processo amministrativo non può attribuire un bene della vita prima di una determinazione della pubblica amministrazione, con l’esigenza di assicurare, sin dove possibile, una tutela piena anche all’interesse pretensivo (per il quale la pronuncia di annullamento raramente si presenta autonomamente satisfattiva), tenuto conto delle specificità correlate al sindacato sul potere pubblico.
È compito precipuo della giustizia amministrativa approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele. La tutela piena, del resto, risponde anche ad un obiettivo di efficienza complessiva del sistema, dal momento che lo sviluppo economico e sociale del Paese passa anche attraverso una risposta rapida e “conclusiva” delle ragioni di contrasto tra le Amministrazioni ed i cittadini.
Alla luce delle svolte considerazioni, deve ritenersi che, nella vicenda in esame, l’ambito di discrezionalità tecnica rimessa all’Amministrazione si sia progressivamente ridotto sino a “svuotarsi” del tutto…”
Sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, la Sesta Sezione ha infine accolto l’appello, specificando che “..nel dare esecuzione alla presente sentenza, il Ministero appellato dovrà rilasciare l’abilitazione per cui è causa in favore dell’appellante…”.