Sull'apertura di un fast food in un'area tutelata dal piano territoriale paesaggistico
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la recente pronuncia del 28 dicembre 2021, numero 8641, si è pronunciata sul legittimo esercizio del potere di autotutela, esercitato dai vari enti coinvolti, relativamente ad una richiesta di apertura di un fast food in un’area tutelata dal piano territoriale paesaggistico.
In particolare, il Consiglio di Stato, quale giudice di appello, con la decisione in esame ha confermato la sentenza di rigetto – resa dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Seconda – del ricorso proposto da una società locatrice (proprietaria di un’immobile sito in un’area attigua alle Terme di Caracalla) nonchè da una società conduttrice (un noto fast food).
Per una migliore comprensione della vicenda si premette, in punto di fatto, quanto segue.
La vicenda
L’immobile di cui si discute – realizzato in virtù di una licenza edilizia risalente al 1970 – era stato, nel tempo, oggetto, non solo di interventi di ampliamento, ma anche di cambi di destinazione d’uso abusivamente realizzati (in relazione ai quali sono stati rilasciati, successivamete, i titoli abilitativi in sanatoria, ai sensi della legge n. 47 del 1985).
In particolare, il fabbricato risulta composto da tre porzioni aventi differenti destinazioni d’uso: l’una con destinazione d’uso commerciale, un’ulteriore con destinazione d’uso ufficio, ed un’ultima porzione è adibita a serra.
Il progetto, presentato dalle parti appellanti (la società locatrice e quella conduttrice), consisteva in un intervento di restauro conservativo dell’immobile, con cambio d’uso, da commerciale/servizi (uffici) a pubblico esercizio dell’edificio – intendendovi ivi realizzare un ristorante – che, a loro avviso, avrebbe dato vita ad una riqualificazione dell’edificio e ad un generale risanamento ambientale dell’area di intervento limitrofa.
Il progetto ha ottenuto, inizialmente, i pareri favorevoli delle autorità competenti, e precisamente quelli:
1- della Regione Lazio, la quale – dopo avere evidenziato che “l’intervento rientra in una zona vincolata ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 42/04 esattamente “negli insediamenti urbani storici e territori contermini” iscritti nella lista del patrimonio dell’Unesco per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e valorizzazione previsto dalla “Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale” non ancora redatto…” – ha sottolineato che, in attesa della redazione e approvazione del Piano, “…la richiesta in oggetto veniva demandata in forma diretta alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di competenza”;
2- della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area archeologica di Roma del MiBAC;
3- della Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la quale ha sottolineato la necessità di acquisire il parere della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, atteso che l’area in questione ricade in area con Vincolo Unesco;
4- del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica – U.O. Permessi di Costruire – Ufficio Autorizzazioni Paesaggistiche del Comune di Roma, il quale ha evidenziato che “i lavori di cui trattasi, ai sensi dell’art. 43 co 15 delle norme del PTPR e dell’art. 134 del D.Lgs. 42/04, non necessitano della Autorizzazione Paesaggistica, di cui all’art. 146 del D.Lgs. 42/04, in quanto per i beni paesaggistici in questione si applicano le norme di tutela del “Piano generale di gestione degli insediamenti storici iscritti nella lista dell’Unesco”;
5- della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma.
Le parti appellanti, dunque – avendo ottenuto i suddetti pareri favorevoli – hanno concluso il contratto definitivo di locazione dell’immobile e – avendo ritenuto approvato l’intervento di restauro (a seguito del silenzio serbato dall’Amministrazione sulla “SCIA alternativa al permesso di costruire”) e dopo aver presentato una SCIA in variante – hanno dato avvio ai lavori.
Sennonchè, il Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Mibact, ha notificato, successivamente, una determinazione avente ad oggetto la sospensione dei lavori, ai sensi dell’art. 150, comma 1, del D. Lgs. n. 42/2004, adottata in esercizio del potere di “avocazione” di cui all’art. 16, comma 1, lett. e), del D. Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016.
Nell’esercizio di tali poteri di avocazione, il Ministero ha disposto l’annullamento d’ufficio, in autotutela, del parere reso dalla Soprintendenza speciale archeologia, belle arti e paesaggio di Roma, ex artt. 21-octies, comma 1, e 21-nonies, comma 1, della L. n. 241/1990.
La giustificazione di tale iniziativa risiedeva nel fatto che “l’area in questione ricade totalmente entro il perimetro del PTP 15/12 ‘Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti’, approvato con DCR del Lazio n. 70 del 10 febbraio 2010 e che la detta area è sottoposta alle ‘Prescrizioni particolari per le zone a tutela orientata’ di cui alla sottozona TOc.3, le quali stabiliscono che ‘nella sottozona TOc.3 si prevede la riqualificazione complessiva dell’intera sottozona (…); pertanto, ad oggi, ogni opera che dovesse interessare l’area di cui all’oggetto sarebbe da considerarsi abusiva, in quanto priva dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’articolo 146 del D. Lgs. n. 42/2004, a norma del quale i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili o aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge o in base alla legge, ‘hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato dalla prescritta autorizzazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuto l’autorizzazione’”.
Intervenuti i suddetti provvedimenti ministeriali, conseguentemente, anche Roma Capitale ha avviato un procedimento di annullamento in autotutela del proprio parere.
Avverso tali provvedimenti, la società locatrice e quella conduttrice hanno proposto ricorso innanzi al TAR Lazio, che è stato, tuttavia, rigettato.
Avverso la decisione di primo grado, le parti ricorrenti hanno, dunque, promosso due separati appelli dinanzi al Consiglio di Stato.
I motivi d’appello e la decisione del Consiglio di Stato
Con detti separati appelli, poi riuniti dal Consiglio di Stato, le parti ricorrenti in primo grado hanno appellanti hanno impugnato la sentenza del TAR Lazio:
1) sostenendo “…la preminenza della disciplina del PTPR sulla scorta, in primis, dell’art. 7, comma 5, delle norme di attuazione della delibera di adozione dello stesso PTPR regionale (n. 556 del 25 luglio 2007), il quale statuisce che, per la parte del territorio interessato dai beni paesaggistici individuati ai sensi dell’articolo 134, co. 1, lett. c), del Codice Urbani si applica, a decorrere dalla adozione, esclusivamente la disciplina di tutela del PTPR, che non prevede il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica…”;
2) affermando che l’intervento di restauro in questione vada qualificato come mero restauro conservativo; circostanza che esclude la necessità di un’autorizzazione paesaggistica;
3) contestando l’esercizio del potere di avocazione, la sussistenza dei presupposti necessari al legittimo potere di autotutela, nonchè di quelli del potere inibitorio ex art. 150 d.lgs. 42/04.
Il Consiglio di Stato – prendendo le mosse dalla individuazione della disciplina pianificatoria e paesaggistica applicabile alla fattispecie in esame e dalla conseguente valutazione di conformità necessaria – ha rilevato, anzitutto, la sussistenza del vincolo sull’area.
Infatti, “l’area in cui si trova l’immobile è tutelata dal PTP n. 15/12, art 134, comma 1, lett c), Valle della Caffarella, Appia antica ed Acquedotti, inclusa nel Centro Storico tutelato come sito Unesco, in area attigua alle Terme di Caracalla, per la quale le Norme tecniche di attuazione (art 46) prevedono espressamente l’obbligatorietà del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice”.
Peraltro, il Consiglio di Stato ha sottolineato che “…nell’elenco dei PTP vigenti oggetto di adeguamento, contenuto nelle stesse norme di attuazione del PTPR evocate, non è inserito quello della valle della Caffarella, adottato precedentemente nel 2006 … Ciò ne conferma la specificità e la non incisione da parte del PTPR che altrimenti, in termini di necessaria chiarezza, lo avrebbe dovuto includere nel predetto elenco. Inoltre, in termini di logico nesso con tale mancato inserimento, lo stesso art. 7 predetto, al comma 2, detta, in termini di specialità e quindi prevalenti sulla statuizione generale del comma 5, la seguente disciplina peculiare: “per la porzione di territorio interna al Comune di Roma nelle località̀ Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti il PTPR rinvia a quanto previsto dal PTP di Roma ambito 15/12 ’Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti‘ adottato dalla Giunta Regionale con atto n. 454 del 25 luglio 2006…”.
Nella medesima direzione si colloca… il successivo art. 43, comma 15, a mente del quale “Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli insediamenti urbani storici ricadenti fra i beni paesaggistici di cui all’art.134 comma 1 lettera a) del Codice, per i quali valgono le modalità di tutela dei “Paesaggi” e alle parti ricadenti negli insediamenti storici iscritti nella lista del Patrimonio dell’Unesco (Roma – centro storico, Tivoli – Villa d’Este e Villa Adriana, Necropoli etrusche di Tarquinia e Cerveteri) per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla “Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale” firmata a Parigi il 10 novembre 1972…”. A propria volta, la delibera di approvazione del PTP Caffarella (n. 70 del 2010), statuisce espressamente, all’art. 46, che “1. Ogni modificazione allo stato dei luoghi nell’ambito dei beni di cui all’articolo 134 comma 1, lettere a, b, c del Codice è subordinata all’autorizzazione di cui all’articolo 146 del Codice ed ai pareri paesistici relativi agli strumenti urbanistici”.
Infine, tale opzione ermeneutica…appare conforme ai principi del vigente ordinamento, in termini di preminenza delle esigenze di tutela del patrimonio culturale, con la conseguenza che le relative previsioni attuative non possono certo essere oggetto di interpretazione riduttiva.
A conferma di tale conclusione, la stessa delibera di approvazione del PTPR invocato, seppur successiva agli atti impugnati… statuisce, nell’ambito degli stessi fondamentali “considerando” iniziali, la salvezza del PTP Caffarella predetto: “considerato che l’elaborazione del Piano è stata finalizzata, ai sensi dell’art. 156 del codice, anche alla verifica ed all’adeguamento dei ptp, destinati ad essere sostituiti dal ptpr approvato, ad esclusione del ptp di Roma ambito 15/12 Caffarella Appia antica e Acquedotti, approvato con deliberazione regionale 10 febbraio 2010, n. 702”… Tale salvezza, pur se cronologicamente successiva agli atti in questione, se per un verso riprende e conferma le salvezze desumibili dalla precedente adozione e sopra richiamate, per un altro verso si rifà espressamente alla approvazione del PTP Caffarella, anteriore alla stessa presentazione del progetto in questione”.
Quanto, invece, al tentativo delle parti appellanti di ridurre la qualificazione edilizia dell’intervento in termini di mero restauro conservativo, al fine di escludere la necessità di autorizzazione paesaggistica, il Consiglio di Stato ha ribadito “la natura autonoma dell’autorizzazione paesaggistica e della relativa valutazione, rispetto al titolo ed alla qualificazione edilizia (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 14 luglio 2014, n. 3618 e sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8260). Ciò che rileva è l’impatto sui valori paesaggistici espressi dal vincolo e dalla disciplina vigente in loco, che nel caso di specie risultano incidere in termini tali da richiedere la relativa autonoma valutazione ex art. 146 cit.”
Quanto al contestato potere di avocazione, invece, il Consiglio di Stato ha esaminato il riferimento normativo, richiamato negli atti impugnati a fondamento del medesimo potere, ossia l’articolo 16, comma 1, lettera e), del D. Lgs. n. 165/2001 e all’articolo 2, comma 1, secondo periodo, del DM n. 44/2016: “Se la norma del testo unico del 2001 prevede il generale potere di direzione, coordinamento e controllo dell’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, la autonoma disciplina regolamentare prevede all’art. 2 – per la direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio – l’esercizio dei “poteri di indirizzo, coordinamento, controllo e, solo in caso di necessita’ ed urgenza, informato il Segretario generale, avocazione e sostituzione, anche su proposta del Segretario regionale”.
Nel caso di specie l’esercizio dei poteri in contestazione, oltre a trovare generale fondamento nella disciplina richiamata, risulta accompagnato dai relativi presupposti della necessità ed urgenza di intervenire, a fronte della evocata eco mediatica e dell’inizio dei lavori di trasformazione dell’area soggetta alla disciplina richiamata. Né la previsione in merito alla sussistenza del potere di avocazione – vigente ratione temporis – si pone nei dedotti termini di contrarietà rispetto alla norma generale… costituendo all’epoca della relativa vigenza una particolare specificazione del potere generale di direzione e controllo, coerente alla peculiare organizzazione ministeriale del Ministero odierno appellato…
Neppure è condivisibile la censura secondo cui, ex art. 2 DM n. 44/2016, il potere di avocazione del direttore generale non comprenderebbe il potere di annullamento; infatti, è la stessa estensione del peculiare istituto della avocazione – in cui in linea generale un organo amministrativo esercita il potere di compiere un atto che rientrerebbe nella competenza di un altro organo, di regola, inferiore – a comprendere tutti gli ambiti della funzione acquisita, compreso il potere di autotutela“.
Circa i contestati presupposti per l’esercizio del potere di autotutela, il Consiglio di Stato ne ha affermato la loro sussistenza “…in termini non di mera rimozione dei pareri precedentemente espressi dalle singole soprintendenze sulla base di una disciplina diversa da quella correttamente ricostruita dalla direzione generale. Va infatti preliminarmente evidenziato come l’effetto degli atti impugnati in prime cure sia quello – di per sé neppure integrante un totale arresto procedimentale definitivo – di diffida all’attivazione del corretto percorso procedimentale, come emerge dal dispositivo dell’atto…” con cui è stato intimato a “…a presentare all’Ufficio autorizzazioni paesaggistiche del Comune di Roma e a questa Direzione generale, ai sensi dell’articolo 146, comma 2, del D.Lgs. n. 42/2004, il progetto degli interventi che intende intraprendere, corredato della prescritta documentazione, e ad astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non abbia ottenuto la prescritta autorizzazione”.
Peraltro, “…va ricordato come lo stesso assenso edilizio, rilasciato in carenza dell’autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l’avvenuto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663)”.
Il Consiglio di Stato ha ricordato, altresì, i principi ormai consolidati in tema di trasformazione edilizia del territorio, “…applicabili a maggior ragione in ordine alla peculiare disciplina propria degli ambiti soggetti a parallela tutela latu sensu culturale, comprendente il versante paesaggistico. In generale, i presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento, dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l’esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l’ambito di motivazione esigibile è integrato dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 18/06/2019, n. 4133).
Orbene, nel caso di specie, oltre al limitato periodo temporale trascorso fra il rilascio degli evocati assensi e l’intervento di rimozione, assumono preminente rilievo i plurimi elementi posti a base degli atti impugnati, pienamente coerenti ai principi predetti: la disciplina vigente ed il conseguente previo necessario rilascio dell’autorizzazione ex art. 146 cit., nei termini già sopra condivisi; la relativa erronea rappresentazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti nella fattispecie; la circostanza che i lavori di trasformazione erano appena stati avviati senza alcun consolidamento, con conseguente connessa valutazione della relativa situazione giuridica dei privati interessati. Emerge altresì dagli atti l’approfondimento motivazionale degli interessi pubblici connessi alla tutela dell’area e del contesto culturale coinvolto, nei termini correttamente indicati sia dalla sentenza impugnata che dalla difesa erariale, oltre che del tutto coerenti ai principi sopra richiamati in tema di autotutela”
In ultimo, sul contestato ricorso al potere inibitorio di cui all’art. 150 d.lgs. 42/04, secondo il Consiglio di Stato “…assume rilievo dirimente il carattere della norma, desumibile sia dal dato letterale – di valenza generale – che dalla collocazione sistematica e strumentale della stessa. … l’art. 150 attribuisce espressamente sia alla Regione sia al Ministero il potere di ordinare la sospensione di lavori atti ad alterare i valori paesaggistici del territorio, a tutela sia dei beni già vincolati sia di aree che si intende tutelare con l’imminente adozione di un futuro vincolo paesaggistico; si tratta, pertanto, di un potere che può essere esercitato anche a salvaguardia di aree o immobili non ancora dichiarati di interesse culturale o paesistico.
Nel caso di specie peraltro… la disciplina vigente conferma la sussistenza del vincolo… e la conseguente necessità dell’autorizzazione paesaggistica, la cui mancanza ha pertanto in ogni caso giustificato e legittimato il ricorso al potere inibitorio in esame.”
Alla luce delle suddette considerazioni, il Consiglio di Stato ha, dunque, respinto gli appelli proposti, e ha confermato la pronuncia di primo grado.