Requisito della regolarità fiscale in caso di revoca di credito di imposta
Il Consiglio di Stato – Sez. III, con la decisione del 2 aprile 2019 n. 2183, si è pronunziato sulla sussistenza (o meno) del requisito della regolarità fiscale nei confronti del concorrente che si sia visto legittimamente revocare da parte dell’Agenzia delle Entrate un credito d’imposta, senza che fosse stato mai emesso un connesso e consequenziale atto di recupero.
Il Collegio, nel decidere la fattispecie sottoposta al suo esame, ha anzitutto rammentato in termini generali come a mente dell’articolo 80 comma 4 del d. lgs. 50/2016, “..un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti..”e che il legislatore si è, altresì, peritato di definire tanto il concetto di “gravi violazioni” identificandole in “quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602″ che quello di “violazioni definitivamente accertate” individuate in “quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione”, specificando infine come “..un tempestivo atto di resipiscenza vale, poi, ad elidere gli effetti interdittivi delle violazioni suddette, non essendo suscettiva di sanzione espulsiva l’infrazione grave e definitivamente accertata nei casi in cui “..l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l’impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande”…”.
Così ricostruita la cornice normativa di riferimento, il Collegio ha ritenuto che non potesse essere sussunta nella previsione normativa soprarichiamata, la disposta revoca d’un credito di imposta, inizialmente a torto prenotato a credito dalla concorrente, in misura superiore a quanto spettante in applicazione della regola “de minimis” di cui all’art. 7, comma 10, della legge del 23 dicembre 2000, n. 388, richiamato dall’art. 63 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (e poi definitivamente sancita come legittima a conclusione del relativo giudizio tributario, con sentenza della Corte di Cassazione).
Sul punto, il Collegio ha in particolare ritenuto di condividere l’opzione ermeneutica incline a ricondurre gli atti (comunque denominati) con cui si accerti, da parte dell’amministrazione tributaria, la non spettanza di una data agevolazione, nella categoria giuridica degli “avvisi di accertamento” (cfr. testualmente Cass. n. 18636 del 2016), “…dovendo, però, al contempo rilevarsi che tali particolari atti, ove esauriscano il proprio contenuto ricostruttivo nella sola negazione del credito dichiarato dal contribuente, tradiscono una dimensione giuridica non autosufficiente ai fini qui in rilievo in quanto necessitano, per potere esprimere appieno una compiuta pretesa impositiva, di ulteriori passaggi valutativi che, nel modello legale di riferimento, vengono affidati ad ulteriori e successivi provvedimenti secondo lo schema della fattispecie a formazione progressiva…”.
“In altri termini“, osserva ancora il Collegio “..l’effetto di accertamento che si riconnette alla revoca del credito di imposta non può dirsi completo in quanto non è ancora espressione di una pretesa tributaria compiutamente e definitivamente stabilita, occorrendo in vista del relativo recupero accertare l’entità del dovuto in ragione anche delle modalità e dei tempi di concreto utilizzo del credito…” (cfr. articolo 8 del d.m. 311 del 3.8.1998).
In siffatte evenienze, seppur è vero che “…la pretesa tributaria confluita nell’atto di recupero non integra una pretesa completamente nuova rispetto a quella originaria (Cass. civ. Sez. V Sent., 12/02/2013, n. 3343) e, pertanto, l’atto di recupero può essere impugnato solo per vizi propri, però è di tutta evidenza che solo a tale ulteriore manifestazione provvedimentale si correla – per effetto della definizione degli elementi costitutivi di siffatta pretesa – la liquidazione dell’importo dovuto e la indicazione dell’ammontare dei relativi accessori (interessi e sanzioni), con conseguente emersione solo in questa fase di un’obbligazione tributaria contenutisticamente determinata…”.
Ed, invero, osserva ancora il Collegio, “…sebbene gli avvisi di recupero non costituiscano accertamenti di imponibili o maggiori imponibili, tuttavia essi contribuiscono a definire, attraverso il disconoscimento del credito di imposta, l’entità della somma concretamente dovuta dal contribuente, cosicchè anche tali avvisi implicano accertamenti della debenza del tributo (Cassazione civile sez. trib., 07/07/2017, n.16761; Cass. n. 3838/2013)… Ed è nella suddetta ottica che il legislatore, all’articolo 1 comma 421 della legge n. 311 del 30.12.2004 ha previsto che “…per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973”…”.
Ciò che ad avviso del Collegio conferma la valenza provvedimentale dell’atto di recupero il quale “…si ascrive alla stessa logica e riflette la stessa natura degli avvisi di accertamento in quanto ad esso si riconnette, come già sopra anticipato, la condivisione dei tratti tipici caratterizzanti l’esercizio della funzione impositiva che implica l’accertamento del credito da recuperare e dei relativi accessori…”, dovendosi dunque ritenere che tale atto sia “…un provvedimento equiparabile nella sua natura impositiva all’avviso di accertamento e non ha natura di mera esecuzione, costituendo anzi il titolo per procedere ad attività di riscossione che, a norma del comma 422 dell’art. 1 della legge citata, resta possibile solo “in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme dovute entro il termine assegnato dall’ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni”.
Di talchè, ad avviso del Collegio, nella fattispecie esaminata “..manca, in definitiva, una pretesa tributaria “compiutamente” e definitivamente stabilita (importo da recuperare, interessi e sanzioni) e, come tale, divenuta esigibile..”
Sulla scorta di tali considerazioni dunque il Collegio ha ritenuto che non si potesse in specie configurare una violazione grave e definitivamente accertata ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 80 comma IV del d. lgs 50/2016, per concretare la quale occorre, anzitutto, “…che sia partecipata al contribuente una pretesa creditoria di natura tributaria recante un credito certo e definito nel suo ammontare ed il conseguente inadempimento del contribuente. Secondo l’orientamento espresso da questo Consiglio di Stato (CdS n. 59 del 2018 e n. 856 del 2018) “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”…”.
E ciò, essendosi ancora di recente precisato che, “….in sede di gara pubblica, ai fini del possesso dei requisiti previsti dall’ art. 80, d.lg. n. 50 del 2016, la definitività dell’accertamento tributario decorre non dalla notifica della cartella esattoriale – in sé, semplice atto con cui l’agente della riscossione chiede il pagamento di una somma di denaro per conto di un ente creditore, dopo aver informato il debitore che il detto ente ha provveduto all’iscrizione a ruolo di quanto indicato in un precedente avviso di accertamento – bensì dalla comunicazione di quest’ultimo; la cartella di pagamento (che infatti non è atto del titolare della pretesa tributaria, ma del soggetto incaricato della riscossione) costituisce solo uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale, cioè non possiede alcuna autonomia che consenta di impugnarla prescindendo dagli atti in cui l’obbligazione è stata enunciata, laddove è l’avviso di accertamento l’atto mediante il quale l’ente impositore notifica formalmente la pretesa tributaria al contribuente, a seguito di un’attività di controllo sostanziale (Cons. Stato, V, 12 febbraio 2018, n. 856; Consiglio di Stato , sez. V , 14/12/2018 , n. 7058: Consiglio di Stato , sez. V , 03/04/2018 , n. 2049)...”.
Tanto, però, è a dirsi solo quando l’accertamento rifletta con compiutezza i contenuti dell’obbligazione tributaria, “…indicando il debito di imposta (recte il credito da recuperare) ed i relativi accessori, evenienza qui non in rilievo, non essendo nemmeno noto – prima dell’emissione dell’atto di recupero – l’ammontare delle somme concretamente dovute, evenienza questa da cui non è possibile invece prescindere come fatto palese anche dalla piana lettura dell’ultimo periodo di cui all’articolo 80 comma IV …”.
Sicchè, “…alla stregua di una lettura sistemica delle disposizioni compendiate nel comma IV dell’articolo 80..”, il Collegio ha concluso nel senso che “..per potere operare la clausola espulsiva connessa ad infrazioni di natura tributaria, è necessario, da un lato, che il relativo credito sia già definito quanto a sorta principale ed “eventuali interessi o multe” e che, ciò nondimeno, la parte sia, comunque, rimasta colpevolmente inadempiente…”.