Annullamento d'ufficio oltre i 18 mesi: casistica
Con la sentenza del 27 giugno 2018 numero 3940, il Consiglio di Stato si è interrogato sull’effettiva portata dell’articolo 21 nonies della legge 241 del 1990, illustrando – dopo un’attenta ed approfondita esegesi della norma – i casi in cui è possibile, per l’Amministrazione, superare il termine di diciotto mesi (previsto dal comma 1 della succitata disposizione) per annullare o revocare d’ufficio un provvedimento amministrativo illegittimo.
I Giudici di Palazzo Spada, hanno in particolare rilevato come il legislatore abbia:
a) da un lato, attraverso la disposizione di cui al comma 1 dell’articolo 21 nonies, scolpito (peraltro, limitatamente alle determinazioni di matrice lato sensu autorizzatoria e a quelle attributive di “vantaggi economici”, per le quali è, con ogni evidenza, maggiormente sentita la necessità di salvaguardare l’affidamento dei privati beneficiari e più consistente il consolidamento dei riconosciuti e/o conseguiti diritti) l’astratto e generale termine ne ultra quem di diciotto mesi per procedere all’annullamento d’ufficio;
b) dall’altro lato, attraverso la disposizione di cui al successivo comma 2 bis del medesimo articolo 21 nonies, disciplinato le ipotesi in cui è possibile superare il rigido termine dei diciotto mesi, consentendo tale superamento per quei provvedimenti amministrativi “..conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato..”.
Il Consiglio di Stato ha in particolare rilevato come la ratio che presiede e sorregge la previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, è ispirata al criterio della abusività del vantaggio conseguito mediante il proprio fatto doloso, sicché la norma si traduce in una ordinaria e ragionevole applicazione del più comprensivo principio che vieta di salvaguardare posizioni di vantaggio conseguite in mala fede (concretando siffatta mala fides – nel consueto senso spiccatamente oggettivo – proprio la “non affidabilità” del fatto, nella sua, altrimenti ordinaria, attitudine a generale legittime aspettative dell’altrui comportamento coerente).
Nonostante sia chiaro come la disposizione in esame autorizzi il superamento del termine di diciotto mesi nei casi di “false rappresentazioni dei fatti” e “dichiarazioni sostitutive di certificazione dell’atto di notorietà false o mendaci“, il nodo interpretativo che il Consiglio di Stato è stato chiamato a “sciogliere”, ha riguardato l’inciso “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, in ordine al quale il dubbio è se debba sintatticamente agganciarsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive o se debba essere, comprensivamente, riferito anche alle “false rappresentazioni dei fatti”.
Dopo una lunga ed approfondita esegesi del dato normativo, il Consiglio di Stato giunge a ritenere corretta la prima interpretazione, essendo il richiamato inciso, riferibile esclusivamente alle false o mendaci dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, in quanto:
a) sul piano testuale, il sintagma “per effetto di condotte”, che introduce una causa efficiente e postula, sul piano logico, una predicazione nominale, appare riferibile esclusivamente al predicato (appunto, nominale) “false e mendaci”;
b) il predicato è riferibile esclusivamente alle “dichiarazioni sostitutive” (di certificazione o di atto di notorietà), non alle “rappresentazioni” del precedente inciso;
c) nella medesima direzione conduce la distinta, per quanto sottile, semantica della “rappresentazione”, a fronte di quella della “dichiarazione”;
d) in ogni caso – sul (decisivo ed assorbente) piano teleologico – è del tutto evidente che il legislatore abbia inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela) agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte, risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle condotte di falsificazione che sono tipicamente suscettibili di violare disposizioni penali);
e) a sposare l’alternativa proposta esegetica, la erronea rappresentazione dei presupposti per l’adozione del provvedimento risulterebbe fonte di implausibile e valorizzato affidamento anche quanto fosse intenzionale o dolosa, ciò che fa palese l’anfibologia del riferimento alla falsità.
In definitiva pertanto, sulla scorta delle superiori argomentazioni, l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 andrà interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi è consentito:
i) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
ii) sia nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.