Inderogabilità della normativa in tema di distanze tra costruzioni ed esclusione del silenzio assenso in aree vincolate

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza del 17 maggio 2023 numero 4933, si è pronunciata sull’esclusione della formazione di un titolo edilizio per silentium in area paesaggisticamente vincolata e sull’inderogabilità, da parte dei Comuni, delle previsioni in tema di distanze tra edifici.

Il Collegio ha innanzitutto ribadito che la normativa nazionale in materia di distanze (l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968) ha “…carattere inderogabile, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza“, e ricordato che “…in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio-assenso bensì per provvedimenti espliciti (art. 20, comma 4, legge n. 241 del 1990)…”.

La vicenda

Ricostruendo la vicenda concreta sottoposta al suo esame, avente ad oggetto l’accertamento del diritto del ricorrente ad essere risarcito di tutti i pregiudizi cagionati da una illegittima determinazione dirigenziale, il Consiglio di Stato ha rimarcato gli snodi principali della vicenda.

Nel 2011, il ricorrente ha acquistato un immobile consistente in un edificio composto da piano seminterrato, piano rialzato e box, per cui ha chiesto e ottenuto nel 2013 un permesso di costruire per la “ristrutturazione, con parziale demolizione del fabbricato esistente e ampliamento con soprelevazione, di numero 3 piani“.

Tale permesso, impugnato da un confinante per violazione della distanza legale di 10 metri fra pareti finestrate, prevista dal D.M. n. 1444/1968, è stato successivamente annullato dal Consiglio di Stato, per cui il ricorrente ha presentato e ottenuto un nuovo permesso di costruire rispettoso di tali previsioni.

Medio tempore, tuttavia, il Comune ha approvato un nuovo P.U.G. (Piano Urbanistico Generale), prevedendo proprio nelle zone interessate una deroga alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate.

Il ricorrente, allora, ha richiesto un ulteriore permesso di costruire sulla base del nuovo P.U.G., non ottenendo esito dal Comune e di conseguenza ritenendo formatosi il silenzio assenso, preannunciando l’invio della comunicazione di inizio lavori.

Con provvedimento del luglio 2017, il Comune si è determinato ad annullare in autotutela sia il secondo permesso di costruire che il silenzio assenso formatosi sul terzo permesso di costruire, e tale determinazione è diventata oggetto del giudizio di primo grado dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale di Bari.

Il giudizio di primo grado

Il ricorrente ha affidato il ricorso introduttivo avverso il provvedimento di autotutela a cinque articolate censure, ed in particolare: “I) eccesso di potere per omessa ed erronea valutazione dei presupposti e carenza di istruttoria, illogicità ed irragionevolezza dell’operato del comune; II) eccesso di potere, contraddittorietà dell’operato del comune, disparità di trattamento ed ingiustizia manifesta, omessa motivazione; III) violazione dell’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, omessa comunicazione di avvio del procedimento; IV) violazione del combinato disposto dell’art. 20 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 e dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241; V) violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990“.

Il TAR, nonostante il Comune non si fosse costituito, con ordinanza interlocutoria del 2021, ha sollevato dubbi in ordine alla procedibilità della domanda impugnatoria, in considerazione dell’ottenimento da parte del ricorrente di un nuovo (il quarto!) permesso di costruire.

Con sentenza del maggio 2022, il Tribunale Amministrativo di primo grado ha dapprima dichiarato improcedibile il ricorso impugnatorio per sopravvenuto difetto di interesse, successivamente ravvisando comunque il persistere di un interesse alla decisione sull’istanza risarcitoria, accertandone contestualmente la fondatezza.

Il TAR, infatti, ha ritenuto sussistenti tutti i presupposti della responsabilità extracontrattuale del Comune, e in particolare: 1) l’illegittimo esercizio dei poteri di autotutela rispetto al titolo autorizzatorio formatosi per silentium e conforme al quadro urbanistico sopravvenuto; 2) la colpa dell’Amministrazione; 3) il nesso di causalità.

Il giudizio di secondo grado

Il Comune ha proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato, sollevando plurime censure per error in iudicando.

In particolare, con il primo motivo di appello il Comune ha sostenuto che “non si sarebbe formato il silenzio assenso, ai sensi dell’art. 20, comma 8, del d.p.r. 380/2001 stante l’esistenza di vincoli paesaggistici imposti dal P.U.G. sull’area oggetto d’intervento nonché vincoli paesaggistici sulla strada prospiciente l’intervento derivanti dall’emanazione dei decreti 24 aprile 1985…“e che “…il nuovo permesso di costruire sarebbe stato rilasciato in dichiarata applicazione dell’art. 26.2 delle n.t.a. del p.u.g. e quelle di cui all’art. 2-bis del d.p.r. n. 380/2001…“.

Gli ulteriori motivi di appello non risultano rilevanti, stante la scelta del Collegio di ritenere fondato e assorbente il primo.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in appello, ha innanzitutto ricordato che “in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio-assenso bensì per provvedimenti espliciti (art. 20, comma 4, legge n. 241 del 1990) […] Nel caso specie, nessun titolo poteva ritenersi legittimamente formato per silentium stante i vincoli paesaggistici gravanti sull’area (id est, sulla strada prospiciente l’intervento derivanti dall’emanazione dei decreti 24 aprile 1985)“.

E invero “parte appellata – per le chiare ragioni ostative di cui all’art. 20, comma 4, d.p.r. n. 241 del 1990 – non poteva vantare la formazione di un idoneo e legittimo titolo edilizio, ragion per cui essa neppure successivamente ha potuto invocare una illegittima sottrazione del bene della vita che mai gli era stato attribuito (tacitamente) e tantomeno appartenuto […] In altri termini, non potendo il sig. -OMISSIS- affermare la valida formazione di un titolo edilizio formatosi per silentium – stante la carenza di una formale autonoma autorizzazione (pur se rilasciata dal medesimo comune in base alla disciplina regionale) sotto il profilo della compatibilità ambientale – neppure può affermare di esserne stato illegittimamente privato, così da inferire una responsabilità del comune per lesione dell’affidamento legittimo…“.

Il Collegio si spinge sino a ricordare che “il P.U.G. è un piano generale e non attuativo, sicché esso stabilisce (in via generale) la distanza tra fabbricati ma affinché questa possa rendersi attuale occorre comunque dotarsi del piano attuativo“, pervenendo a dichiarare l’illegittimità del Piano Urbanistico adottato dal Comune.

Infatti, il piano va “inapplicato” nel caso di specie poiché v’è “…certa illegittimità, ad ogni modo, anche del P.U.G., nella parte in cui ha derogato alle distanze minime di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 in assenza di una legislazione regionale (v. art. 2-bis, d.p.r. n. 380/2001) che legittimasse – ratione temporis – i comuni a prevedere deroghe all’art. 9, u.c., del d.m. n. 1444 del 1968 in sede di approvazione del P.U.G.“.

Secondo costante giurisprudenza, la distanza minima di dieci metri tra edifici antistanti (nel regime normativo nazionale e regionale applicabile ratione temporis) aveva carattere inderogabile sia per il Comune che per i privati, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra le costruzioni “…in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza (Cons. Stato, n. 7029/2021, n. 3093/2017, n. 2086/2017, n. -OMISSIS-; Cass., civ., n. 23136/2016)…” e tale illegittimità comporta l’obbligo del giudice di applicare la norma superiore e disapplicare la norma regolamentare (il P.U.G. in questo caso).

Le uniche eccezioni consentite dalla norma sono: a) gli interventi di risanamento conservativo; b) le ristrutturazioni di edifici situati nei centri storici; c) i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; d) la posa del cd. cappotto termico.

Solo nel 2019 (con il D.L. n. 32/2019, convertito con L. n. 55/2019), la normativa nazionale ha introdotto la possibilità per le Regioni e le Province autonome di prevedere, con proprie leggi, disposizioni derogatorie del D.M. n. 1444/1968; tale facoltà, sinora, non è stata ancora attivata dalla Regione Puglia.

Anche per questo motivo, la scelta del Comune di revocare in autotutela il secondo permesso di costruire e il silenzio assenso sul terzo permesso di costruire (comunque, come visto, inesistente), non è connotato da profili di responsabilità in capo all’Amministrazione.

Non è nemmeno ravvisabile la responsabilità soggettiva per colpa, stante l’esistenza di “…princìpi normativi e giurisprudenziali in tema di distanze legali di incerta applicazione e non agevole coordinamento, a cagione del contrasto esistente fra fronti normative di livello diverso, suscettive di non facile e immediata ordinazione e composizione…“.

Quanto alle spese legali, il Consiglio le ha compensate proprio alla luce di tali ultime considerazioni.

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Inderogabilità della normativa in tema di distanze tra costruzioni ed esclusione del silenzio assenso in aree vincolate

Published On: 29 Maggio 2023

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza del 17 maggio 2023 numero 4933, si è pronunciata sull’esclusione della formazione di un titolo edilizio per silentium in area paesaggisticamente vincolata e sull’inderogabilità, da parte dei Comuni, delle previsioni in tema di distanze tra edifici.

Il Collegio ha innanzitutto ribadito che la normativa nazionale in materia di distanze (l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968) ha “…carattere inderogabile, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza“, e ricordato che “…in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio-assenso bensì per provvedimenti espliciti (art. 20, comma 4, legge n. 241 del 1990)…”.

La vicenda

Ricostruendo la vicenda concreta sottoposta al suo esame, avente ad oggetto l’accertamento del diritto del ricorrente ad essere risarcito di tutti i pregiudizi cagionati da una illegittima determinazione dirigenziale, il Consiglio di Stato ha rimarcato gli snodi principali della vicenda.

Nel 2011, il ricorrente ha acquistato un immobile consistente in un edificio composto da piano seminterrato, piano rialzato e box, per cui ha chiesto e ottenuto nel 2013 un permesso di costruire per la “ristrutturazione, con parziale demolizione del fabbricato esistente e ampliamento con soprelevazione, di numero 3 piani“.

Tale permesso, impugnato da un confinante per violazione della distanza legale di 10 metri fra pareti finestrate, prevista dal D.M. n. 1444/1968, è stato successivamente annullato dal Consiglio di Stato, per cui il ricorrente ha presentato e ottenuto un nuovo permesso di costruire rispettoso di tali previsioni.

Medio tempore, tuttavia, il Comune ha approvato un nuovo P.U.G. (Piano Urbanistico Generale), prevedendo proprio nelle zone interessate una deroga alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate.

Il ricorrente, allora, ha richiesto un ulteriore permesso di costruire sulla base del nuovo P.U.G., non ottenendo esito dal Comune e di conseguenza ritenendo formatosi il silenzio assenso, preannunciando l’invio della comunicazione di inizio lavori.

Con provvedimento del luglio 2017, il Comune si è determinato ad annullare in autotutela sia il secondo permesso di costruire che il silenzio assenso formatosi sul terzo permesso di costruire, e tale determinazione è diventata oggetto del giudizio di primo grado dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale di Bari.

Il giudizio di primo grado

Il ricorrente ha affidato il ricorso introduttivo avverso il provvedimento di autotutela a cinque articolate censure, ed in particolare: “I) eccesso di potere per omessa ed erronea valutazione dei presupposti e carenza di istruttoria, illogicità ed irragionevolezza dell’operato del comune; II) eccesso di potere, contraddittorietà dell’operato del comune, disparità di trattamento ed ingiustizia manifesta, omessa motivazione; III) violazione dell’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, omessa comunicazione di avvio del procedimento; IV) violazione del combinato disposto dell’art. 20 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 e dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241; V) violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990“.

Il TAR, nonostante il Comune non si fosse costituito, con ordinanza interlocutoria del 2021, ha sollevato dubbi in ordine alla procedibilità della domanda impugnatoria, in considerazione dell’ottenimento da parte del ricorrente di un nuovo (il quarto!) permesso di costruire.

Con sentenza del maggio 2022, il Tribunale Amministrativo di primo grado ha dapprima dichiarato improcedibile il ricorso impugnatorio per sopravvenuto difetto di interesse, successivamente ravvisando comunque il persistere di un interesse alla decisione sull’istanza risarcitoria, accertandone contestualmente la fondatezza.

Il TAR, infatti, ha ritenuto sussistenti tutti i presupposti della responsabilità extracontrattuale del Comune, e in particolare: 1) l’illegittimo esercizio dei poteri di autotutela rispetto al titolo autorizzatorio formatosi per silentium e conforme al quadro urbanistico sopravvenuto; 2) la colpa dell’Amministrazione; 3) il nesso di causalità.

Il giudizio di secondo grado

Il Comune ha proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato, sollevando plurime censure per error in iudicando.

In particolare, con il primo motivo di appello il Comune ha sostenuto che “non si sarebbe formato il silenzio assenso, ai sensi dell’art. 20, comma 8, del d.p.r. 380/2001 stante l’esistenza di vincoli paesaggistici imposti dal P.U.G. sull’area oggetto d’intervento nonché vincoli paesaggistici sulla strada prospiciente l’intervento derivanti dall’emanazione dei decreti 24 aprile 1985…“e che “…il nuovo permesso di costruire sarebbe stato rilasciato in dichiarata applicazione dell’art. 26.2 delle n.t.a. del p.u.g. e quelle di cui all’art. 2-bis del d.p.r. n. 380/2001…“.

Gli ulteriori motivi di appello non risultano rilevanti, stante la scelta del Collegio di ritenere fondato e assorbente il primo.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in appello, ha innanzitutto ricordato che “in materia ambientale e paesaggistica non si può procedere per silenzio-assenso bensì per provvedimenti espliciti (art. 20, comma 4, legge n. 241 del 1990) […] Nel caso specie, nessun titolo poteva ritenersi legittimamente formato per silentium stante i vincoli paesaggistici gravanti sull’area (id est, sulla strada prospiciente l’intervento derivanti dall’emanazione dei decreti 24 aprile 1985)“.

E invero “parte appellata – per le chiare ragioni ostative di cui all’art. 20, comma 4, d.p.r. n. 241 del 1990 – non poteva vantare la formazione di un idoneo e legittimo titolo edilizio, ragion per cui essa neppure successivamente ha potuto invocare una illegittima sottrazione del bene della vita che mai gli era stato attribuito (tacitamente) e tantomeno appartenuto […] In altri termini, non potendo il sig. -OMISSIS- affermare la valida formazione di un titolo edilizio formatosi per silentium – stante la carenza di una formale autonoma autorizzazione (pur se rilasciata dal medesimo comune in base alla disciplina regionale) sotto il profilo della compatibilità ambientale – neppure può affermare di esserne stato illegittimamente privato, così da inferire una responsabilità del comune per lesione dell’affidamento legittimo…“.

Il Collegio si spinge sino a ricordare che “il P.U.G. è un piano generale e non attuativo, sicché esso stabilisce (in via generale) la distanza tra fabbricati ma affinché questa possa rendersi attuale occorre comunque dotarsi del piano attuativo“, pervenendo a dichiarare l’illegittimità del Piano Urbanistico adottato dal Comune.

Infatti, il piano va “inapplicato” nel caso di specie poiché v’è “…certa illegittimità, ad ogni modo, anche del P.U.G., nella parte in cui ha derogato alle distanze minime di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 in assenza di una legislazione regionale (v. art. 2-bis, d.p.r. n. 380/2001) che legittimasse – ratione temporis – i comuni a prevedere deroghe all’art. 9, u.c., del d.m. n. 1444 del 1968 in sede di approvazione del P.U.G.“.

Secondo costante giurisprudenza, la distanza minima di dieci metri tra edifici antistanti (nel regime normativo nazionale e regionale applicabile ratione temporis) aveva carattere inderogabile sia per il Comune che per i privati, in quanto norma imperativa volta a predeterminare in via generale le distanze tra le costruzioni “…in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza (Cons. Stato, n. 7029/2021, n. 3093/2017, n. 2086/2017, n. -OMISSIS-; Cass., civ., n. 23136/2016)…” e tale illegittimità comporta l’obbligo del giudice di applicare la norma superiore e disapplicare la norma regolamentare (il P.U.G. in questo caso).

Le uniche eccezioni consentite dalla norma sono: a) gli interventi di risanamento conservativo; b) le ristrutturazioni di edifici situati nei centri storici; c) i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; d) la posa del cd. cappotto termico.

Solo nel 2019 (con il D.L. n. 32/2019, convertito con L. n. 55/2019), la normativa nazionale ha introdotto la possibilità per le Regioni e le Province autonome di prevedere, con proprie leggi, disposizioni derogatorie del D.M. n. 1444/1968; tale facoltà, sinora, non è stata ancora attivata dalla Regione Puglia.

Anche per questo motivo, la scelta del Comune di revocare in autotutela il secondo permesso di costruire e il silenzio assenso sul terzo permesso di costruire (comunque, come visto, inesistente), non è connotato da profili di responsabilità in capo all’Amministrazione.

Non è nemmeno ravvisabile la responsabilità soggettiva per colpa, stante l’esistenza di “…princìpi normativi e giurisprudenziali in tema di distanze legali di incerta applicazione e non agevole coordinamento, a cagione del contrasto esistente fra fronti normative di livello diverso, suscettive di non facile e immediata ordinazione e composizione…“.

Quanto alle spese legali, il Consiglio le ha compensate proprio alla luce di tali ultime considerazioni.

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