Nullità del licenziamento per assenza prima del superamento del periodo di comporto
Con sentenza numero 12568 del 22 maggio 2018, le Sezioni Unite – Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, risolvendo un contrasto interpretativo, hanno sancito la nullità del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto.
La questione sottoposta al vaglio della Corte, risiedeva nell’alternativa tra il considerare il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, soltanto inefficace fino a tale momento o, invece, il ritenerlo ab origine nullo per violazione dell’art. 2110 cod. civ., comma 2.
Le Sezioni Unite in particolare, prima di dare una risposta al quesito, passano in rassegna i diversi orientamenti espressi dalla Suprema Corte in materia, precisando di voler sgombrare il campo dai “possibili equivoci” interpretativi, nati dall’orientamento secondo cui il licenziamento intimato prima che sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro, doveva ritenersi meramente inefficace fino a quando tale periodo non si fosse consumato.
Le Sezioni Unite infatti rilevano come le uniche sentenze (Cass. n. 9037/01 e Cass. n. 1657/93) che hanno affermato che il licenziamento intimato solo per perdurante morbilità e prima dello scadere del periodo di comporto sia valido, ancorché meramente inefficace fino alla scadenza medesima, si sono basate su precedenti giurisprudenziali che – in realtà – statuivano altro.
Ed invero, nei precedenti richiamati dalle sentenze dei giudici di legittimità n. 9037/01 e n. 1657/93, viene sì statuito il differimento dell’efficacia del licenziamento in parola sino allo scadere del periodo di comporto, ma ciò in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, e cioè a licenziamenti intimati: o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88), o per giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sé a risolvere immediatamente il rapporto, ancor prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad nutum (Cass. n. 133/89).
In tutte tali evenienze, dunque, il perdurante stato di malattia non integra di per sè l’unica ragione del licenziamento, ma funge da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento medesimo.
Fugato il campo dagli equivoci interpretativi, le Sezioni Unite rilevano come l’opzione interpretativa secondo cui sarebbe già validamente disposto il licenziamento per il protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore (con l’unico limite del mero differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto), non solo contrasta con l’autorevole orientamento già espresso dalle medesime Sezioni Unite con la sentenza n. 2072/80 (nonché dalla successiva conforme giurisprudenza), ma essa è altresì impraticabile in termini di coerenza, dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico.
Ed invero, ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto, significherebbe consentire un licenziamento sostanzialmente acausale (nell’accezione giuslavoristica del termine) disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento, finendosi in tal modo per aggirare l’interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di legittimità) dell’art. 2110 cod. civ., comma 2, ignorandone altresì la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l’occupazione.
Pertanto, coerenza sistematica vuole che il licenziamento intimato prima dell’esaurimento del periodo di comporto non possa che essere essere considerato nullo, in quanto posto in violazione della norma a carattere imperativo di cui all’articolo 2110, secondo comma, del codice civile, il quale mira a tutelare il fondamentale diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione “…che non può essere adeguatamente protetto se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie, senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro….”.
Nell’articolo 2110, comma 2 del codice civile, si rinviene infatti un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Per tali ragioni – anche in considerazione della natura peculiare del licenziamento per superamento del periodo di comporto, che costituisce fattispecie autonoma rispetto a quello per giusta causa o per giustificato motivo – le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto per cui “…il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 cod. civ., comma 2..”.