Servizio di refezione scolastica e libera scelta alimentare
E’ illegittimo per incompentenza ed eccesso di potere il regolamento comunale che, disciplinando la gestione del servizio di mensa scolastica preveda l’obbligatorietà, per tutti gli alunni delle scuole materne ed elementari, del medesimo servizio di ristorazione scolastica, col divieto di consumare, nei locali in cui si svolge la refezione scolastica, cibi diversi da quelli forniti dall’impresa appaltatrice del servizio, sul presupposto che “…il consumo di parti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale, oltre che una possibile fonte di rischio igienico sanitario…”.
In tal senso si è espressa la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con la decisione del 3 settembre 2018, n. 5156, nella quale si per un verso ritenuto che una siffatta regolamentazione comunale, interferisca con la circolare del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca n. 348 del 3 marzo 2017, rivolta ai direttori degli Uffici scolastici regionali, la quale “…(muovendo dal “riconoscimento giurisprudenziale” del diritto degli alunni di consumare il cibo portato da casa, e in attesa della pronuncia della Corte di cassazione innanzi alla quale sono pendenti alcuni ricorsi proposti dallo stesso MIUR avverso le pronunce dei giudici di merito) ha, nelle more, confermato la possibilità di consumare cibi portati da casa, dettando alcune regole igieniche ed invitando i dirigenti scolastici ad adottare una serie di conseguenziali cautele e precauzioni…” (derivando, sotto tale aspetto, il vizio di incompetenza assoluta del Comune in specie riscontrato dal Giudice Amministrativo).
Per altro verso, continuano il Giudici di Palazzo Spada, “..la scelta restrittiva radicale del Comune – di suo non supportata da concretamente dimostrate ragioni di pubblica salute o igiene né commisurata ad un ragionevole equilibrio – di interdire senz’altro il consumo di cibi portati da casa (attraverso lo strumentale e previsto divieto di permanenza nei locali scolastici degli alunni che intendono pranzare con alimenti diversi da quelli somministrati dalla refezione scolastica) limita una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori, vale a dire la scelta alimentare: scelta che – salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro – è per sua natura e in principio libera, e si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici…”.
Per poter legittimamente restringere da parte della pubblica autorità una tale naturale facoltà dell’individuo o per esso della famiglia, occorre dunque ad avviso del Supremo Consesso “…che sussistano dimostrate e proporzionali ragioni inerenti quegli opposti interessi pubblici o generali. Queste ragioni, vertendosi di libertà individuali e nell’ambiente scolastico, non possono surrettiziamente consistere nelle mere esigenze di economicità di un servizio generale esternalizzato e del quale non si intende fruire perché non intrinseco, ma collaterale alla funzione educativa scolastica; e che invece, nella situazione restrittiva data, verrebbe senz’altro privilegiato a tutto scapito della libertà in questione…”.
Nella specie, la restrizione praticata con l’impugnato regolamento – che nemmeno si preoccupa, osserva il Collegio, “…di ricercare un bilanciamento degli interessi…” – “…manifestamente non corrisponde ai canoni di idoneità, coerenza, proporzionalità e necessarietà rispetto all’obiettivo – dichiaratamente perseguito – di prevenire il rischio igienico-sanitario. E l’assunto che “il consumo di parti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale” si manifesta irrispettoso delle rammentate libertà e comunque è apodittico…”.
Da ciò, l’illegittimità del regolamento impugnato anche per eccesso di potere per irragionevolezza, in quanto misura inidonea e sproporzionata rispetto al fine perseguito.