Concessione di spazi pubblici ai privati
Il Consiglio di Stato, con sentenza del 19 settembre 2024 numero 7687, ha affrontato il tema della concessione di spazi pubblici ai privati, con particolare riguardo al potere del Comune di “evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista”.
La fattispecie
Una nota associazione aveva impugnato la deliberazione con cui la Giunta Comunale aveva stabilito indirizzi per il rilascio di concessioni temporanee per le occupazioni occasionali di spazi e aree pubbliche nel territorio cittadino “prevedendo l’obbligo di allegare alla relativa domanda una dichiarazione che contenga, tra l’altro, l’impegno del richiedente di riconoscersi nei princìpi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”.
Il TAR aveva respinto il ricorso, richiamando la discrezionalità dell’Ente nel definire i criteri per la concessione di beni pubblici e osservando che la deliberazione fa ricorso a un’endiadi «nel senso che l’adesione ai princìpi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo».
L’associazione aveva quindi appellato la sentenza innanzi al Consiglio di Stato deducendo tra l’altro che:
- la delibera avrebbe leso le libertà di manifestazione del pensiero, a suo dire impedendo al singolo di esternare le proprie convinzioni personali e limitando lo svolgimento di attività sociali e politiche negli spazi pubblici;
- in ogni caso, la misura avrebbe violato il principio di proporzionalità, incidendo sulle convinzioni personali del singolo senza avere alcuna efficacia in chiave preventiva, non impedendo che poi venga fatto uso illecito dello spazio pubblico.
La pronuncia del Consiglio di Stato
Il Giudice d’appello ha respinto l’appello, osservando e affermando quanto segue.
- In primo luogo, e in linea generale, la definizione in via preventiva e generale di criteri e indirizzi per l’esame delle istanze di concessione (tempi, modi e condizioni dell’occupazione), è legittima tenuto conto della potestà discrezionale di cui gode il Comune sul punto, comportando la concessione un utilizzo a fini privati di aree che vengono sottratti all’uso comune.
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In secondo luogo, la circostanza che il Comune abbia emanato un regolamento in materia, non esclude l’adozione di ulteriori e successivi atti d’indirizzo, col limite tuttavia che questi siano rispettosi del primo (e, ovviamente, delle altre fonti sovraordinate) emergendo in particolare una generale competenza della Giunta all’adozione di atti d’indirizzo rispetto alla concreta gestione amministrativa, finanziaria e tecnica demandata ai dirigenti.
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Alla luce di ciò, quindi, l’Amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che gli spazi pubblici “vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, princìpi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste”.
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Tale obiettivo, infatti, deve ritenersi di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito «l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione» (sentenza n. 254 del 1974) avendo la dottrina costituzionalistica osservato che “La matrice antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi … quanto soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto … che si pongono (consapevolmente, come emerge anche dai lavori preparatori della Costituente) in chiara discontinuità rispetto a quelli propri del regime precedente, riconoscendo espressamente diritti e libertà che dal fascismo erano stati violati e approntando gli istituti giuridici per garantire loro tutela – non ultimo, prevedendo un controllo di costituzionalità delle leggi”.
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In tale contesto, il primo comma della XII disposizione che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», non può ritenersi meramente “transitoria”, ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il secondo comma), ma, è norma “finale”, in quanto, legandosi all’art. 54, co. 1 rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che è volta a scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri.
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A tale disposizione ha dato attuazione la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. “legge Scelba”), che fornisce a quel bene giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e costituzionale” «una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale» (Cass. pen., ss. uu., sent. n. 16153 del 2024).
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È dunque legittimo che il Comune, nel definire gli indirizzi per la concessione degli spazi pubblici, adotti delle cautele preventive volte a evitare che questi siano utilizzati per il compimento di atti o fatti che possano favorire la riorganizzazione “sotto qualsiasi forma” del partito fascista come definita dall’art. 1 della legge n. 645 del 1952, comprese dunque quelle manifestazioni che siano tali da «provocare adesioni e consensi e concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, la quale ha ritenuto legittimo punire le manifestazioni usuali del partito fascista che siano tenute “pubblicamente” e possano determinare tale pericolo).
Sulla base di tali considerazioni, quindi, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’obbligo posto dalla Giunta non può dirsi neppure sproporzionato, tenuto tra l’altro conto che la dichiarazione richiesta dall’Amministrazione – lungi dal rappresentare una sorta di “professione di fede” o un giuramento di fedeltà fini a se stessi – debba intendersi come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche.