Jobs Act: incostituzionale il meccanismo sanzionatorio previsto per licenziamento illegittimo
Il meccanismo sanzionatorio previsto dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015 (cosiddetto Jobs Act) in caso di licenziamento illegittimo, nella parte in cui prevede il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR per ogni anni di servizio, è stato dichiarato incostituzionale.
In tal senso ha statuito la Corte Costituzionale con la sentenza numero 194 dell’8 novembre 2018, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.45 del 14 novembre 2018, con la quale – operata una breve ed esaustiva disamina dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di licenziamenti, alla luce dei principi di rango costituzionale che connotano il nostro ordinamento giuslavoristico e in accoglimento di soltanto una delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal remittente – sono stati in particolare ed in via preliminare richiamati gli articoli 4 e 35 della Carta Costituzionale in tema di diritto del lavoro e tutela del lavoratore; proprio dai contenuti precettivi di queste due norme discendono i limiti al potere di licenziare quali rimedi al disequilibrio di fatto esistente tra le parti del contratto di lavoro subordinato.
La Consulta ha quindi riconosciuto come la tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo, possa essere discrezionalmente attuata dal legislatore ordinario senza che il bilanciamento degli opposti interessi imponga un determinato regime di tutela, rilevando come “…già la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l’art. 4 della Costituzione «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», precisò che «l’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale»…”, ed ancora come “..nello stesso senso si sono successivamente espresse le sentenze n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986…”; di talchè, “…il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza…”.
Ciò che ha dunque portato la Suprema Corte a pronunciare tale sentenza di accoglimento parziale, dichiarando incostituzionale il primo comma dell’articolo 3 del Jobs Act, è stato il meccanismo di quantificazione assolutamente rigido, in quanto graduato sulla base della sola anzianità di servizio, mentre “… è un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti…
Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima…”.
È pertanto proprio sulla assenza di discrezionalità del giudice che la Consulta ha fondato la propria critica alla norma denunziata, poiché “… in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio… All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse…“.
Ritenendo dunque fondate le questioni con cui il rimettente aveva lamentato come il meccanismo sanzionatorio previsto dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23 del 2015 violasse:
- i principi di eguaglianza e ragionevolezza sottesi all’articolo 3 della Carta Costituzionale;
- i principi sanciti dal primo comma dell’articolo 4 e dal primo comma dell’articolo 35 della Carta Costituzionale;
- il principio generale di tutela del lavoratore in caso di licenziamento previsto dall’articolo 24 della Carta Sociale Europea (il quale trova applicazione per il tramite degli articoli 76 e 117 della Carta Costituzionale),
la Corte Costituzionale ha dichiarato la disposizione denunziata costituzionalmente illegittima, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,”, permanendo i soli limiti secondo cui l’indennità non potrà mai essere riconosciuta in misura inferiore a sei o superiore a trentasei mensilità.
E ciò, precisandosi anche che “…nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)“.