Sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 di abusi edilizi su area condominiale
Il Consiglio di Stato, Sezione Settima, con la pronuncia n. 1438 del 13 febbraio 2024, in riforma della sentenza di primo grado, ha annullato un permesso di costruire in sanatoria rilasciato – ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 – ad un condomino per un box auto chiuso realizzato su un’area di uso comune dei condomini.
La fattispecie
L’appellante, proprietaria di una unità immobiliare del fabbricato interessato dall’abuso, con ricorso al T.A.R. Campania, aveva impugnato, chiedendone l’annullamento, il titolo edilizio in sanatoria, rilasciato ad altro condomino, affidandosi ai seguenti motivi di diritto: a) violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, carenza dei presupposti e di istruttoria; b) violazione e falsa applicazione dell’art. 38 delle NTA del PRG del Comune, erroneità dei presupposti.
L’adito T.A.R. Campania, con la sentenza n. 1094 del 26 febbraio 2019, respingeva il ricorso.
La condomina rimasta soccombente in prime cure ha, quindi, proposto appello davanti al Consiglio di Stato, lamentando – in estrema sintesi – come la decisione di primo grado non avesse adeguatamente considerato la natura dell’area su cui il manufatto abusivo era stato realizzato.
Il “decisum”
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in rassegna, ha preliminarmente respinto le eccezioni di carenza di interesse e difetto di legittimazione dell’appellante ad impugnare il titolo edilizio in sanatoria, osservando come “l’area sottostante il fabbricato …situata tra i pilastri del palazzo e utilizzata da tutti i condomini per la sosta delle auto, risulta di natura condominiale e, come tale, legittima pienamente l’originaria ricorrente – condomina dello stabile – ad agire per l’annullamento della sanatoria concessa ad altro condominio per l’edificazione al suo interno di un garage chiuso di 50 mq che gli consente un uso esclusivo degli spazi parcheggio, sottraendoli all’utilizzazione da parte degli altri condomini”.
Quindi, rammentando come “in base all’art. 11, comma 1 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”, ha precisato che “l’Amministrazione comunale, prima di rilasciare un titolo edilizio, abbia sempre l’onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell’immobile oggetto dell’intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia una ragione di disponibilità sufficiente per eseguire l’attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4 aprile 2012, n. 1990)”.
Ciò, ferm0 restando che “alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi” può “provvedere, oltre che il proprietario, anche ogni altro soggetto interessato al conseguimento della regolarizzazione”, a condizione però che “sia correttamente rappresentata la titolarità dell’area su cui il manufatto sorge e acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4818; Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 437; Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2000, n. 3520)”.
Di talché, l’istituto della sanatoria è inapplicabile “laddove – come nell’ipotesi in esame – l’abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari”, atteso che, in caso contrario, “l’amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all’eliminazione dell’abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 3282).
Per tale aspetto, quindi, il Collegio ha accolto l’appello, ammettendo che l’Amministrazione – sebbene avesse ricevuto l’istanza da parte del “proprietario dell’unità immobiliare sita al piano interrato del fabbricato” priva di alcuna precisazione circa l’esistenza del condominio – avrebbe dovuto e potuto, nella specie, “in base al contenuto dei numerosi provvedimenti già adottati in relazione ai manufatti presenti sui luoghi di causa – che identificavano da sempre l’area come “condominiale” – e ai molteplici elementi a sua disposizione, raccolti nel corso dei sopralluoghi e dei procedimenti svolti… verificare, senza avere la necessità di effettuare accertamenti particolarmente complessi, la natura condominiale dell’area de qua e la mancanza in capo al richiedente di un titolo di proprietà tale da poter sottrarre in via definitiva con le opere realizzate lo spazio in questione all’uso paritario degli altri condomini”.
E ciò trova peraltro conferma “nella disciplina normativa dettata dall’art. 1102 c.c. (relativo all’uso della cosa comune), per cui il singolo condomino può apportare alle parti comuni, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modificazioni che gli consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l’inserimento di elementi estranei, posti a esclusivo servizio della sua porzione” senza impedire tuttavia, “l’uso del bene comune stesso e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità”.
In conclusione, l’istanza, presentata da un semplice condomino, “avrebbe in verità, come anticipato, dovuto essere corredata dalla prova del consenso degli altri comproprietari o, quantomeno, della mancanza di opposizione dell’amministrazione condominiale, poiché l’Amministrazione procedente avrebbe potuto agevolmente considerare il fatto che, in una situazione così caratterizzata, il contitolare del bene estraneo all’abuso avesse un interesse contrario alla sanatoria di opere che avrebbero potuto risolversi in suo danno (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6529)”.