Affidamento, tramite accordo fra PA, di servizi di ricerca

Published On: 12 Settembre 2018Categories: Appalti Pubblici e Concessioni, Pubblica Amministrazione

L’ANAC, con la Delibera n. 619 del 4 luglio 2018, ha fornito importanti chiarimenti in materia di qualificazione accordi fra pubbliche amministrazioni, ai fini della applicabilità o meno dell’art. 5, comma 6 del decreto legislativo n.50/2016 (ovvero della valutazione sulla ricorrenza delle condizioni che consentono di ritenere l’accordo medesimo sottratto all’ambito di applicazione del nuovo codice dei contratti pubblici).
Al fine di stabilire se un accordo concluso fra più amministrazioni possa ritenersi conforme alle disposizioni del citato art. 5, comma 6, del d.lgs.  50/2016 – osserva l’ANAC – occorre preliminarmente rammentare come, ai sensi di tale norma, la disciplina  dettata dal Codice non trovi applicazione agli accordi conclusi “esclusivamente tra due o più  amministrazioni aggiudicatrici” quando sono soddisfatte tutte le seguenti  condizioni:

  • l’accordo stabilisce o realizza  una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti  aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che  essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi  che essi hanno in comune;
  • l’attuazione di tale cooperazione è retta  esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico;
  • le amministrazioni aggiudicatrici o gli  enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20  per cento delle attività interessate dalla cooperazione.

Come già osservato dall’Autorità (cfr. parere AG14/2017/AP), la norma sopra richiamata – dettata  in recepimento dell’art. 1, paragrafo 6, della direttiva 24/2014/UE – indica  in maniera tassativa i limiti entro i quali detti accordi possono essere  conclusi, affinché possa ritenersi legittima l’esenzione dal Codice, valendo a disciplinare comunque un istituto già previsto in linea generale dall’art. 15  della l. n.241/1990 (ai sensi del quale «anche al di fuori delle ipotesi previste  dall’articolo 14, le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra  loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività  di interesse comune»: cfr. sul punto, ANAC determina n. 7/2010).
Ciò posto, con la delibera in rassegna, l’ANAC rammenta ancora di avere già, “..in coerenza con l’avviso giurisprudenziale  in materia (Corte di Giustizia UE, ord.16 maggio 2013, causa C-564/11; sent. 19  dicembre 2012, causa C-159/11; Consiglio di Stato, sent. n. 3130 del 23/06/2014  e n. 3849 del 15 luglio 2013)..” osservato “…che le  direttive sugli appalti devono essere applicate sulla base di un  approccio funzionale, e cioè in modo coerente con gli obiettivi ad esse  sottesi, i quali consistono nell’imporre alle amministrazioni il rispetto della  concorrenza laddove debba affidare attività economicamente contendibili…” (cfr. pareri sulla normativa AG/07/15/AP, AG34/16/AP e Del. n. 216/2016, riferiti all’assetto  normativo recato da d.lgs. 163/2006) e che “..conseguentemente, gli accordi tra PA sono necessariamente quelli aventi la  finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto  privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni  elencate nell’allegato II-A alla direttiva appalti 2004/18/CE; il contenuto e  la funzione elettiva di tali accordi è quella di regolare le rispettive  attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli  enti stipulanti. Pertanto, qualora un’amministrazione si ponga rispetto  all’accordo come un operatore economico, prestatore di servizi e verso un  corrispettivo, anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma  solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra  enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico  comune, ma di uno scambio tra i medesimi. Negli accordi tra amministrazioni  pubbliche, pertanto, assume rilievo la posizione di equiordinazione tra le  stesse, al fine di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di  interesse comune e non di comporre un conflitto di interessi di carattere  patrimoniale; occorre, in sostanza, una “sinergica  convergenza” su attività di interesse comune, pur nella diversità  del fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione…”
Convergenza  che difetta, continua l’ANAC, “.. nel caso in cui  il contratto sia inquadrabile nel paradigma  generale previsto dall’art. 1321 cod. civ., essendo caratterizzato dalla  patrimonialità del rapporto giuridico con esso costituito e disciplinato, a  causa della riconducibilità delle prestazioni demandate all’ente di servizi che – pur rientranti in astratto nella sua istituzionale funzione – sono  annoverabili tra le attività di cui all’allegato II-A alla direttiva  2004/18 e sono destinate ad essere fatte proprie dall’Amministrazione  affidante, in quanto strumentali rispetto ai suoi compiti, con acquisizione di  una utilitas in via  diretta delle  stesse…”.
Sulla base di tali considerazioni, l’ANAC – che ha già in precedenza ritenuto che una convenzione tra PA rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 15, l. 241/1990 ove regoli la  realizzazione di interessi pubblici effettivamente comuni alle parti, con una reale divisione di  compiti e responsabilità, in assenza di remunerazione (ad eccezione del ristoro delle spese sostenute) e senza interferire con gli interessi  salvaguardati dalla normativa sugli appalti pubblici – ha ritenuto che l’accordo sottoposto al suo esame non presentasse i caratteri tipici del partenariato pubblico-pubblico, trattandosi piuttosto di un affidamento di servizi di ricerca, dietro  pagamento di un corrispettivo, senza una reale condivisione di attività e  risultati (che sono di esclusiva proprietà di una delle due PA che ha sottoscritto dell’Accordo) ed in assenza di una  sinergica convergenza su attività di interesse comune, quali elementi richiesti  ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 6, del Codice.
E che esso al contrario ricade nell’ambito di applicazione del primo comma dell’articolo 158 del Codice dei Contratti, il quale – confermando la disciplina dei contratti di ricerca e sviluppo  già prevista nel previgente art. 19, comma 1, lett. f) del d.lgs. 163/2006 – prevede l’applicabilità della disciplina del Codice all’accordo siglato, allorchè esso soddisfi entrambe le seguenti condizioni: i) i risultati appartengono esclusivamente all’amministrazione aggiudicatrice e all’ente aggiudicatore,  affinché li usi nell’esercizio della sua  attività; ii) la prestazione del servizio è interamente  retribuita dall’amministrazione aggiudicatrice e dall’ente aggiudicatore (cfr., sul previgente art. 19, comma 1, lett. f) del d.lgs. 163/2006: ANAC, pareri sulla normativa AG42/2013  e AG 52/2016 e del. n. 72/2009).

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Affidamento, tramite accordo fra PA, di servizi di ricerca

Published On: 12 Settembre 2018

L’ANAC, con la Delibera n. 619 del 4 luglio 2018, ha fornito importanti chiarimenti in materia di qualificazione accordi fra pubbliche amministrazioni, ai fini della applicabilità o meno dell’art. 5, comma 6 del decreto legislativo n.50/2016 (ovvero della valutazione sulla ricorrenza delle condizioni che consentono di ritenere l’accordo medesimo sottratto all’ambito di applicazione del nuovo codice dei contratti pubblici).
Al fine di stabilire se un accordo concluso fra più amministrazioni possa ritenersi conforme alle disposizioni del citato art. 5, comma 6, del d.lgs.  50/2016 – osserva l’ANAC – occorre preliminarmente rammentare come, ai sensi di tale norma, la disciplina  dettata dal Codice non trovi applicazione agli accordi conclusi “esclusivamente tra due o più  amministrazioni aggiudicatrici” quando sono soddisfatte tutte le seguenti  condizioni:

  • l’accordo stabilisce o realizza  una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti  aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che  essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi  che essi hanno in comune;
  • l’attuazione di tale cooperazione è retta  esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico;
  • le amministrazioni aggiudicatrici o gli  enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20  per cento delle attività interessate dalla cooperazione.

Come già osservato dall’Autorità (cfr. parere AG14/2017/AP), la norma sopra richiamata – dettata  in recepimento dell’art. 1, paragrafo 6, della direttiva 24/2014/UE – indica  in maniera tassativa i limiti entro i quali detti accordi possono essere  conclusi, affinché possa ritenersi legittima l’esenzione dal Codice, valendo a disciplinare comunque un istituto già previsto in linea generale dall’art. 15  della l. n.241/1990 (ai sensi del quale «anche al di fuori delle ipotesi previste  dall’articolo 14, le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra  loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività  di interesse comune»: cfr. sul punto, ANAC determina n. 7/2010).
Ciò posto, con la delibera in rassegna, l’ANAC rammenta ancora di avere già, “..in coerenza con l’avviso giurisprudenziale  in materia (Corte di Giustizia UE, ord.16 maggio 2013, causa C-564/11; sent. 19  dicembre 2012, causa C-159/11; Consiglio di Stato, sent. n. 3130 del 23/06/2014  e n. 3849 del 15 luglio 2013)..” osservato “…che le  direttive sugli appalti devono essere applicate sulla base di un  approccio funzionale, e cioè in modo coerente con gli obiettivi ad esse  sottesi, i quali consistono nell’imporre alle amministrazioni il rispetto della  concorrenza laddove debba affidare attività economicamente contendibili…” (cfr. pareri sulla normativa AG/07/15/AP, AG34/16/AP e Del. n. 216/2016, riferiti all’assetto  normativo recato da d.lgs. 163/2006) e che “..conseguentemente, gli accordi tra PA sono necessariamente quelli aventi la  finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto  privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni  elencate nell’allegato II-A alla direttiva appalti 2004/18/CE; il contenuto e  la funzione elettiva di tali accordi è quella di regolare le rispettive  attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli  enti stipulanti. Pertanto, qualora un’amministrazione si ponga rispetto  all’accordo come un operatore economico, prestatore di servizi e verso un  corrispettivo, anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma  solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra  enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico  comune, ma di uno scambio tra i medesimi. Negli accordi tra amministrazioni  pubbliche, pertanto, assume rilievo la posizione di equiordinazione tra le  stesse, al fine di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di  interesse comune e non di comporre un conflitto di interessi di carattere  patrimoniale; occorre, in sostanza, una “sinergica  convergenza” su attività di interesse comune, pur nella diversità  del fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione…”
Convergenza  che difetta, continua l’ANAC, “.. nel caso in cui  il contratto sia inquadrabile nel paradigma  generale previsto dall’art. 1321 cod. civ., essendo caratterizzato dalla  patrimonialità del rapporto giuridico con esso costituito e disciplinato, a  causa della riconducibilità delle prestazioni demandate all’ente di servizi che – pur rientranti in astratto nella sua istituzionale funzione – sono  annoverabili tra le attività di cui all’allegato II-A alla direttiva  2004/18 e sono destinate ad essere fatte proprie dall’Amministrazione  affidante, in quanto strumentali rispetto ai suoi compiti, con acquisizione di  una utilitas in via  diretta delle  stesse…”.
Sulla base di tali considerazioni, l’ANAC – che ha già in precedenza ritenuto che una convenzione tra PA rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 15, l. 241/1990 ove regoli la  realizzazione di interessi pubblici effettivamente comuni alle parti, con una reale divisione di  compiti e responsabilità, in assenza di remunerazione (ad eccezione del ristoro delle spese sostenute) e senza interferire con gli interessi  salvaguardati dalla normativa sugli appalti pubblici – ha ritenuto che l’accordo sottoposto al suo esame non presentasse i caratteri tipici del partenariato pubblico-pubblico, trattandosi piuttosto di un affidamento di servizi di ricerca, dietro  pagamento di un corrispettivo, senza una reale condivisione di attività e  risultati (che sono di esclusiva proprietà di una delle due PA che ha sottoscritto dell’Accordo) ed in assenza di una  sinergica convergenza su attività di interesse comune, quali elementi richiesti  ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 6, del Codice.
E che esso al contrario ricade nell’ambito di applicazione del primo comma dell’articolo 158 del Codice dei Contratti, il quale – confermando la disciplina dei contratti di ricerca e sviluppo  già prevista nel previgente art. 19, comma 1, lett. f) del d.lgs. 163/2006 – prevede l’applicabilità della disciplina del Codice all’accordo siglato, allorchè esso soddisfi entrambe le seguenti condizioni: i) i risultati appartengono esclusivamente all’amministrazione aggiudicatrice e all’ente aggiudicatore,  affinché li usi nell’esercizio della sua  attività; ii) la prestazione del servizio è interamente  retribuita dall’amministrazione aggiudicatrice e dall’ente aggiudicatore (cfr., sul previgente art. 19, comma 1, lett. f) del d.lgs. 163/2006: ANAC, pareri sulla normativa AG42/2013  e AG 52/2016 e del. n. 72/2009).

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