Una base d'asta non remunerativa impatta anche sul principio della concorrenza
Il Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria, con la sentenza del 16 luglio 2018 numero 418, dopo aver dato atto che la giurisprudenza è da ultimo riapprodata all’orientamento enunciato già dall’Adunanza Plenaria n.4/11 riconoscendo anche a chi non ha partecipato alla gara la legittimazione a contestare le cd. “clausole escludenti” del bando – tra le quali vanno ricomprese le condizioni negoziali che rendono il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente – ha ritenuto del tutto irragionevole e non remunerativo un bando di gara per la fornitura di latte che prevedeva a base d’asta un importo 250 volte inferiore al relativo prezzo di mercato.
A tale decisione il Giudice Amministrativo è giunto richiamando anche la classica distinzione tra vendita “a prezzo vile” e vendita “a prezzo irrisorio o simbolico”, e rilevando che nell’ipotesi in cui il prezzo della vendita sia obiettivamente non serio – o perché privo di valore reale e perciò meramente apparente o simbolico, o perché programmaticamente destinato nella comune intenzione delle parti a non essere pagato – il contratto è nullo per mancanza di un elemento essenziale; mentre nell’ipotesi in cui il prezzo sia di gran lunga inferiore all’effettivo valore di mercato del bene compravenduto o fornito, la conseguenza non sarà l’invalidità del contratto per difetto di causa, ma una diversa qualificazione giuridica della fattispecie negoziale che potrà essere ascritta a seconda dei casi a diverse categorie negoziali (es. donazioni indirette o negozi misti a donazione).
Il Collegio ha ritenuto che il prezzo posto nel caso di specie a base d’asta fosse, oltre che oggettivamente fuori mercato, macroscopicamente incongruo ed irragionevole, e che ciò, considerata la natura sensibile dell’oggetto del contratto – latte sostitutivo di quello materno – impattasse anche sulla corretta applicazione del principio generale della concorrenza, risultando evidente che solo fissando a base d’asta un prezzo non meramente simbolico può garantirsi l’effettiva contendibilità dell’affidamento da parte dei soggetti potenzialmente interessati (senza favorire un unico fornitore, o una marca rispetto ad un’altra).
E del resto è proprio allo scopo di soddisfare tali esigenze, rispondenti a fondamentali principi di derivazione eurounitaria, che le stazioni appaltanti sono tenute a provvedere a tutti gli accorgimenti tecnici utili a mantenere il mercato nell’assetto più concorrenziale possibile (ricorrendo ad esempio alla rotazione tra i fornitori, indicando un range di prezzo minimo – massimo con scarto limitato, riuscendo ad ottenere dall’industria confezioni ospedaliere diverse da quelle previste per la grande distribuzione, ed assicurando la qualità del prodotto attraverso un’offerta che tenga conto del divieto di distribuzione di quantità gratuite o a basso prezzo di alimenti per neonati).
A giudizio del Collegio infine, sebbene nel vigente codice dei contratti pubblici non si rinvenga una disposizione espressa che prescriva l’obbligo di porre a base d’asta un prezzo necessariamente remunerativo, la previsione che può fungere da parametro di legittimità della base d’asta è quella dettata dall’articolo 97 comma 5 del D.Lgvo 50/16 (che stabilisce che la stazione appaltante “esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto… a) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 30, comma 3;b) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 105..”).
Tale disposizione esprime infatti un principio cardine nella disciplina del nuovo Codice degli appalti, che è quello per cui le stazioni appaltanti debbano garantire la qualità delle prestazioni non solo nella fase di scelta del contraente, ma sin dalla fase di predisposizione dei parametri della gara.