Istanza di accesso agli atti “polifunzionale” e diritto di accesso all’informazione ambientale

Il Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza numero 4679 dell’8 giugno 2022 ha sancito importanti principi in materia di accesso agli atti, ribadendo – tra l’altro – che la relativa istanza può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento a tutte le tipologie di accesso previste dal nostro ordinamento, soffermandosi altresì sul nesso di strumentalità tra i documenti richiesti e l’interesse dedotto, ed infine sulle caratteriste del “diritto di accesso all’informazione ambientale”.

Il caso

La fattispecie esaminata dai Giudici del Palazzo Spada – aditi per l’annullamento della sentenza pronunciata in primo grado dal TAR Veneto – prende le mosse dalla richiesta di accesso avanzata da una società nei confronti d’una amministrazione regionale competente in materia di per prevenzione e protezione ambientale per ottenere l’ostensione dei documenti relativi ad un sito produttivo industriale e alle condizioni ambientali dell’area circostante.

Tale istanza, in particolare, conteneva tre distinte tipologie di accesso:

quello documentale ai sensi della legge n. 241/1990 (e ciò al fine di potersi difendere in un giudizio che vedeva la ricorrente individuata quale soggetto responsabile della contaminazione della succitata area ambientale, in quanto successore a titolo universale del precedente titolare del sito produttivo);

quello ambientale ai sensi del d.lgs. n. 195/2005;

quello civico generalizzato ai sensi del d.lgs. n. 33/2013.

L’Agenzia regionale opponeva un diniego parziale all’ostensione della documentazione richiesta e tale provvedimento veniva impugnato dalla società ricorrente innanzi al TAR Veneto.

Il TAR però rigettava il ricorso ex art. 116 c.p.a., ritenendo:

– da un lato, che non fosse stato adeguatamente comprovato dalla società ricorrente il nesso di strumentalità tra l’interesse difensivo da tutelare e la documentazione richiesta;

– dall’altro, che l’interesse perseguito tramite l’accesso ex d.lgs. n. 195/2005 non avesse “una matrice genuinamente ambientale”.

I motivi e gli argomenti dedotti nell’appello

La società ricorrente in prime cure ha quindi proposto appello innanzi al Consiglio di Stato, articolando due ordini di censure.

In primo luogo, e con il primo motivo d’appello, l’appellante ha censurato l’erroneità del giudizio in ordine all’accesso documentale difensivo, affermando che la valutazione del TAR non solo sarebbe sconfessata dalla documentazione in atti, ma rappresenterebbe altresì un inammissibile sovvertimento dei principi che regolano la ripartizione dell’onere probatorio e la valutazione delle prove nel processo amministrativo.

Col secondo motivo di appello, la società ha censurato il capo della sentenza che ha dichiarato l’infondatezza dell’accesso ambientale, deducendo l’erroneità della sentenza in esame nella parte in cui è stata apoditticamente postulata una incompatibilità tra l’accesso difensivo e l’accesso ambientale.

Sul punto, la sentenza avrebbe tra l’altro dato corso ad un sindacato di legittimità del giudice esteso alle cause di esclusione dell’accesso ambientale, da ritenersi incompatibile con il principio di tassatività delle stesse, imposta dalla normativa eurounitaria, nonché con la ratio dell’istituto dell’accesso ambientale, come sancita dalla direttiva 2003/4/CE e dalla Convenzione di Aarhus.

La decisione del Consiglio di Stato

I Giudici di Palazzo Spada, accogliendo l’appello, hanno sancito il diritto della società appellante all’accesso invocato sia ai sensi della legge numero 241 del 1990 (cd. accesso “documentale” o “procedimentale”) sia ai sensi del d.lgs. n. 195 del 2005 (il cd. “accesso alle informazioni ambientali”).

1) Per un primo aspetto di carattere generale, infatti, l’istanza di accesso presentata illo tempore dall’appellante (la quale aveva formulato la propria pretesa ostensiva facendo cumulativamente riferimento sia all’accesso documentale che all’accesso alle informazioni ambientali) era da ritenersi pienamente regolare e legittima, atteso che “…tale modus procedendi è conforme all’ormai consolidata esegesi giurisprudenziale, secondo cui la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento a tutte le tipologie di accesso previste dal nostro ordinamento, senza che a ciò siano di ostacolo “differenti finalità, requisiti e aspetti procedimentali” (Adunanza plenaria, decisione n. 10 del 2020, par. 8 e ss.)…”. 

2) In secondo luogo, e quanto alla sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per l’ostensione, il Supremo Consesso ha rilevato come la società appellante fosse titolare di un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b, della l. n. 241/90).

E ciò in quanto la società aveva correttamente rappresentato sia l’esigenza di difendersi nell’ambito del giudizio che la vedeva coinvolta in qualità di soggetto individuato quale responsabile della contaminazione del sito produttivo, sia la necessità di partecipare in modo compiuto ed effettivo al procedimento di risanamento ambientale in corso.

Sicché, quanto al profilo di carattere probatorio “…la società non era pertanto tenuta a dimostrare la “stretta indispensabilità” delle informazioni richieste a fini difensivi, bensì soltanto il nesso di strumentalità rispetto alla tutela dei propri interessi…”, alla stregua del noto insegnamento dell’Adunanza Plenaria (decisione n. 4 del 2021), per cui tale connessione va peraltro valutata solo in astratto poiché la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non deve […] svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.

3) Quanto poi all’ammissibilità della richiesta di accesso all’informazione ambientale formulata dall’appellante, il Supremo Consesso ricorda in primo luogo che ai sensi dell’articolo 2, del d.lgs. n. 195 del 2005 – in conformità della Convenzione di Aarhus e alla direttiva 2003/4/CE – per “informazione ambientale” si intende “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente”, tra l’altro “le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori” ambientali, così come definiti dalla stessa disposizione, unitamente alle misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi”.

Orbene, nel caso di specie l’appellante aveva richiesto di accedere al modello matematico elaborato da A.r.p.a.v., composto dai documenti informatici che recano i codici di calcolo definiti per simulare la ricostruzione del deflusso delle acque sotterranee e dal database dei dati idrogeologici in uso per le simulazioni.

Secondo Giudici di Palazzo Spada tale modello è certamente ascrivibile alle misure indicate dal succitato articolo 2, in quanto esso rappresenta un “potente strumento per studiare l’evoluzione spazio-temporale degli inquinanti, fornendo un pieno supporto alle decisioni con informazioni scientifiche e tecniche”.

4) Ancora, in relazione alla sussistenza di un “genuino” interesse ambientale da parte della società, il Collegio ha ricordato che “…secondo la Convenzione di Aarhus, il diritto di accesso all’informazione ambientale non è condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti…” (in tale ottica infatti, l’art. 2, comma 5, della Convenzione identifica il “pubblico interessato” in tutti i soggetti che “subiscono o possono subire gli effetti dei processi decisionali in materia ambientale o che hanno un interesse da far valere al riguardo”).

Il Collegio ha poi sottolineato come, secondo la direttiva europea 2003/4/CE “…alle Autorità pubbliche è consentito di respingere una richiesta di informazione ambientale solo in casi specifici e chiaramente definiti (considerando n. 16)…” e che “…le ragioni del rifiuto vanno interpretate in maniera restrittiva, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione delle informazioni con l’interesse tutelato dal rifiuto di divulgarle (art. 4, par. 2; cfr. anche Corte di Giustizia UE, sentenza del 28 luglio 2011, Office of Communications, C-71/10, EU:C:2011:525, punto 22, citata dall’appellante)…”.

Ne deriva che non è quindi possibile escludere pregiudizialmente dall’accesso ambientale un soggetto, come invece accaduto nella fattispecie, sol perché esso persegue anche fini economico-imprenditoriali.

In tal senso, il Consiglio ha sottolineato che “…non vi è incompatibilità tra l’interesse imprenditoriale e la finalità di tutela ambientale sottesa alla disciplina in esame (C.g.a., sentenza n. 15 del 17 gennaio 2018)…”.

Il carattere “manifestamente irragionevole della richiesta” avuto riguardo alle finalità dell’accesso ambientale (cfr. l’art. 5, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 195 del 2005) è infatti riscontrabile solo nelle ipotesi in cui vengano in rilievo esclusivamente interessi estranei alla tutela delle matrici ambientali e, conseguentemente, usi strumentali delle relative informazioni.

Nella fattispecie, al contrario, la società appellante “…è un soggetto esposto agli effetti dei processi decisionali pubblici in materia ambientale, come dimostra plasticamente il fatto che, pur negando la propria responsabilità nel fenomeno di inquinamento, sta comunque partecipando al procedimento di bonifica in corso. Per tale ragione, anch’essa deve avere la possibilità di acquisire tutte le informazioni utili a partecipare a tali processi decisionali…”, e non ricorre, inoltre, nessuno dei “casi di esclusione” disciplinati dall’art. 5 del decreto n. 195 del 2005.

5) Infine, il Supremo Consesso non ha omesso di evidenziare che un atteggiamento maggiormente collaborativo da parte di A.r.p.a.v. avrebbe consentito alla società, già in sede procedimentale, di meglio specificare l’oggetto della propria richiesta, così come peraltro espressamente previsto dall’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 195 del 2005 secondo cui, se la richiesta d’accesso è formulata in maniera eccessivamente generica “l’autorità pubblica può chiedere al richiedente, al più presto e, comunque, entro 30 giorni dalla data del ricevimento della richiesta stessa, di specificare i dati da mettere a disposizione, prestandogli, a tale scopo, la propria collaborazione […]”.

Sicché, la “mole” dei dati integrativi (eccepita dall’amministrazione a sostegno del rigetto dell’istanza) avrebbe potuto giustificare solo “…una ulteriore interlocuzione tra le parti, finalizzata a circoscrivere le informazioni da mettere a disposizione, ma non già il rifiuto, tout court, da parte della resistente Agenzia di esibire tali informazioni…”.

Da ciò, l’accoglimento del ricorso e la condanna dei resistenti al pagamento delle spese legali.

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Istanza di accesso agli atti “polifunzionale” e diritto di accesso all’informazione ambientale

Published On: 13 Giugno 2022

Il Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza numero 4679 dell’8 giugno 2022 ha sancito importanti principi in materia di accesso agli atti, ribadendo – tra l’altro – che la relativa istanza può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento a tutte le tipologie di accesso previste dal nostro ordinamento, soffermandosi altresì sul nesso di strumentalità tra i documenti richiesti e l’interesse dedotto, ed infine sulle caratteriste del “diritto di accesso all’informazione ambientale”.

Il caso

La fattispecie esaminata dai Giudici del Palazzo Spada – aditi per l’annullamento della sentenza pronunciata in primo grado dal TAR Veneto – prende le mosse dalla richiesta di accesso avanzata da una società nei confronti d’una amministrazione regionale competente in materia di per prevenzione e protezione ambientale per ottenere l’ostensione dei documenti relativi ad un sito produttivo industriale e alle condizioni ambientali dell’area circostante.

Tale istanza, in particolare, conteneva tre distinte tipologie di accesso:

quello documentale ai sensi della legge n. 241/1990 (e ciò al fine di potersi difendere in un giudizio che vedeva la ricorrente individuata quale soggetto responsabile della contaminazione della succitata area ambientale, in quanto successore a titolo universale del precedente titolare del sito produttivo);

quello ambientale ai sensi del d.lgs. n. 195/2005;

quello civico generalizzato ai sensi del d.lgs. n. 33/2013.

L’Agenzia regionale opponeva un diniego parziale all’ostensione della documentazione richiesta e tale provvedimento veniva impugnato dalla società ricorrente innanzi al TAR Veneto.

Il TAR però rigettava il ricorso ex art. 116 c.p.a., ritenendo:

– da un lato, che non fosse stato adeguatamente comprovato dalla società ricorrente il nesso di strumentalità tra l’interesse difensivo da tutelare e la documentazione richiesta;

– dall’altro, che l’interesse perseguito tramite l’accesso ex d.lgs. n. 195/2005 non avesse “una matrice genuinamente ambientale”.

I motivi e gli argomenti dedotti nell’appello

La società ricorrente in prime cure ha quindi proposto appello innanzi al Consiglio di Stato, articolando due ordini di censure.

In primo luogo, e con il primo motivo d’appello, l’appellante ha censurato l’erroneità del giudizio in ordine all’accesso documentale difensivo, affermando che la valutazione del TAR non solo sarebbe sconfessata dalla documentazione in atti, ma rappresenterebbe altresì un inammissibile sovvertimento dei principi che regolano la ripartizione dell’onere probatorio e la valutazione delle prove nel processo amministrativo.

Col secondo motivo di appello, la società ha censurato il capo della sentenza che ha dichiarato l’infondatezza dell’accesso ambientale, deducendo l’erroneità della sentenza in esame nella parte in cui è stata apoditticamente postulata una incompatibilità tra l’accesso difensivo e l’accesso ambientale.

Sul punto, la sentenza avrebbe tra l’altro dato corso ad un sindacato di legittimità del giudice esteso alle cause di esclusione dell’accesso ambientale, da ritenersi incompatibile con il principio di tassatività delle stesse, imposta dalla normativa eurounitaria, nonché con la ratio dell’istituto dell’accesso ambientale, come sancita dalla direttiva 2003/4/CE e dalla Convenzione di Aarhus.

La decisione del Consiglio di Stato

I Giudici di Palazzo Spada, accogliendo l’appello, hanno sancito il diritto della società appellante all’accesso invocato sia ai sensi della legge numero 241 del 1990 (cd. accesso “documentale” o “procedimentale”) sia ai sensi del d.lgs. n. 195 del 2005 (il cd. “accesso alle informazioni ambientali”).

1) Per un primo aspetto di carattere generale, infatti, l’istanza di accesso presentata illo tempore dall’appellante (la quale aveva formulato la propria pretesa ostensiva facendo cumulativamente riferimento sia all’accesso documentale che all’accesso alle informazioni ambientali) era da ritenersi pienamente regolare e legittima, atteso che “…tale modus procedendi è conforme all’ormai consolidata esegesi giurisprudenziale, secondo cui la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento a tutte le tipologie di accesso previste dal nostro ordinamento, senza che a ciò siano di ostacolo “differenti finalità, requisiti e aspetti procedimentali” (Adunanza plenaria, decisione n. 10 del 2020, par. 8 e ss.)…”. 

2) In secondo luogo, e quanto alla sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per l’ostensione, il Supremo Consesso ha rilevato come la società appellante fosse titolare di un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b, della l. n. 241/90).

E ciò in quanto la società aveva correttamente rappresentato sia l’esigenza di difendersi nell’ambito del giudizio che la vedeva coinvolta in qualità di soggetto individuato quale responsabile della contaminazione del sito produttivo, sia la necessità di partecipare in modo compiuto ed effettivo al procedimento di risanamento ambientale in corso.

Sicché, quanto al profilo di carattere probatorio “…la società non era pertanto tenuta a dimostrare la “stretta indispensabilità” delle informazioni richieste a fini difensivi, bensì soltanto il nesso di strumentalità rispetto alla tutela dei propri interessi…”, alla stregua del noto insegnamento dell’Adunanza Plenaria (decisione n. 4 del 2021), per cui tale connessione va peraltro valutata solo in astratto poiché la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non deve […] svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.

3) Quanto poi all’ammissibilità della richiesta di accesso all’informazione ambientale formulata dall’appellante, il Supremo Consesso ricorda in primo luogo che ai sensi dell’articolo 2, del d.lgs. n. 195 del 2005 – in conformità della Convenzione di Aarhus e alla direttiva 2003/4/CE – per “informazione ambientale” si intende “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente”, tra l’altro “le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori” ambientali, così come definiti dalla stessa disposizione, unitamente alle misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi”.

Orbene, nel caso di specie l’appellante aveva richiesto di accedere al modello matematico elaborato da A.r.p.a.v., composto dai documenti informatici che recano i codici di calcolo definiti per simulare la ricostruzione del deflusso delle acque sotterranee e dal database dei dati idrogeologici in uso per le simulazioni.

Secondo Giudici di Palazzo Spada tale modello è certamente ascrivibile alle misure indicate dal succitato articolo 2, in quanto esso rappresenta un “potente strumento per studiare l’evoluzione spazio-temporale degli inquinanti, fornendo un pieno supporto alle decisioni con informazioni scientifiche e tecniche”.

4) Ancora, in relazione alla sussistenza di un “genuino” interesse ambientale da parte della società, il Collegio ha ricordato che “…secondo la Convenzione di Aarhus, il diritto di accesso all’informazione ambientale non è condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti…” (in tale ottica infatti, l’art. 2, comma 5, della Convenzione identifica il “pubblico interessato” in tutti i soggetti che “subiscono o possono subire gli effetti dei processi decisionali in materia ambientale o che hanno un interesse da far valere al riguardo”).

Il Collegio ha poi sottolineato come, secondo la direttiva europea 2003/4/CE “…alle Autorità pubbliche è consentito di respingere una richiesta di informazione ambientale solo in casi specifici e chiaramente definiti (considerando n. 16)…” e che “…le ragioni del rifiuto vanno interpretate in maniera restrittiva, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione delle informazioni con l’interesse tutelato dal rifiuto di divulgarle (art. 4, par. 2; cfr. anche Corte di Giustizia UE, sentenza del 28 luglio 2011, Office of Communications, C-71/10, EU:C:2011:525, punto 22, citata dall’appellante)…”.

Ne deriva che non è quindi possibile escludere pregiudizialmente dall’accesso ambientale un soggetto, come invece accaduto nella fattispecie, sol perché esso persegue anche fini economico-imprenditoriali.

In tal senso, il Consiglio ha sottolineato che “…non vi è incompatibilità tra l’interesse imprenditoriale e la finalità di tutela ambientale sottesa alla disciplina in esame (C.g.a., sentenza n. 15 del 17 gennaio 2018)…”.

Il carattere “manifestamente irragionevole della richiesta” avuto riguardo alle finalità dell’accesso ambientale (cfr. l’art. 5, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 195 del 2005) è infatti riscontrabile solo nelle ipotesi in cui vengano in rilievo esclusivamente interessi estranei alla tutela delle matrici ambientali e, conseguentemente, usi strumentali delle relative informazioni.

Nella fattispecie, al contrario, la società appellante “…è un soggetto esposto agli effetti dei processi decisionali pubblici in materia ambientale, come dimostra plasticamente il fatto che, pur negando la propria responsabilità nel fenomeno di inquinamento, sta comunque partecipando al procedimento di bonifica in corso. Per tale ragione, anch’essa deve avere la possibilità di acquisire tutte le informazioni utili a partecipare a tali processi decisionali…”, e non ricorre, inoltre, nessuno dei “casi di esclusione” disciplinati dall’art. 5 del decreto n. 195 del 2005.

5) Infine, il Supremo Consesso non ha omesso di evidenziare che un atteggiamento maggiormente collaborativo da parte di A.r.p.a.v. avrebbe consentito alla società, già in sede procedimentale, di meglio specificare l’oggetto della propria richiesta, così come peraltro espressamente previsto dall’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 195 del 2005 secondo cui, se la richiesta d’accesso è formulata in maniera eccessivamente generica “l’autorità pubblica può chiedere al richiedente, al più presto e, comunque, entro 30 giorni dalla data del ricevimento della richiesta stessa, di specificare i dati da mettere a disposizione, prestandogli, a tale scopo, la propria collaborazione […]”.

Sicché, la “mole” dei dati integrativi (eccepita dall’amministrazione a sostegno del rigetto dell’istanza) avrebbe potuto giustificare solo “…una ulteriore interlocuzione tra le parti, finalizzata a circoscrivere le informazioni da mettere a disposizione, ma non già il rifiuto, tout court, da parte della resistente Agenzia di esibire tali informazioni…”.

Da ciò, l’accoglimento del ricorso e la condanna dei resistenti al pagamento delle spese legali.

About the Author: Simona Santoro